Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
Il tema della costruzione della qualità sociale dei luoghi è la narrazione di una profonda ambivalenza, nella misura in cui i processi di definizione di specificità territorialmente situate, che si tratti di prodotti “tipici” o di modi di produzione localmente radicati, finiscono per declinarsi non tanto come baluardi di opposizione e resistenza alle logiche globalizzanti del Neo-Liberismo, quanto quali espressioni complementari delle tendenze produttive dominanti su scala planetaria.
Per poter argomentare un’affermazione così netta e almeno parzialmente contro-intuitiva, è necessario anzitutto esplicitare le coordinate entro cui si posiziona il dibattito in corso sul rapporto tra Economia, Esseri Umani e Natura: l’era del cosiddetto Antropocene, il cui etimo, derivante dalla giustapposizione tra le parole greche “anthropos” (uomo) e “kainós” (nuovo), designa non soltanto lo scenario temporale post-moderno di evoluzione della presenza umana sulla Terra, ma anche la sua cifra connotante, quella di un sistema socio-ecologico ineluttabilmente avviluppato a un processo di metamorfosi costante a causa di un’azione antropica sempre più dirompente, che trova la sua epitome più visibile negli sconvolgimenti climatici correnti. Uno degli effetti di questo “caos calmo” antropocenico è il cambiamento continuo dei processi di definizione del valore d’uso e di scambio dei territori, che si riverbera dallo scacchiere globale fino alla scala locale più circoscritta, dando corpo in modo molto prosaico all’immagine poetica dell’”effetto farfalla”. Quest’ultimo, coniato dal matematico e meteorologo Edward Lorenz nel 1963, allude alla predicibilità dei grandi cambiamenti sistemici a partire dall’innesco di minime variazioni nelle condizioni iniziali, in un crescendo che – metaforicamente – dalla leggerezza impalpabile di un battito d’ali condurrebbe alla devastazione atmosferica generata da un tornado (Lorenz E.N., Deterministic Nonperiodic Flow, Journal of the Atmospheric Sciences, 20, 1963): ed è appunto la seconda parte di questa progressione esponenziale a dare conto del parossismo ambientale ormai consustanziale alla fase più matura e critica dell’Antropocene.
Infatti, il riposizionamento continuo del valore dei paesaggi territoriali, secondo scale di priorità dettate da interessi geo-politici ed economici, non può che generare l’emergere di conflitti di varia natura intorno alla redistribuzione delle risorse naturali e antropiche, confluenti in quella che Jason Mooreha ha chiamato “la triplice frattura” della Crisi in cui l’Antropocene verserebbe in questo momento (Moore J.W., Anthropocene or Capitalocene? Nature, History, and the Crisis of the Capitalism, Oakland 2016): conflitti di classe tra ricchi e poveri del mondo rispetto all’impatto rispettivamente subito a seguito dell’infragilimento climatico (“Climate Class Divide”); conflitti che attraversano le disuguaglianze di genere, in un’ottica intersezionale di sommatoria delle vulnerabilità, se è vero che le donne confermano globalmente una maggiore difficoltà nell’accesso e nel consumo delle risorse (“Climate Patriarchy”); conflitti socio-culturali esacerbati dalla ripresa di essenzialismi di marca razziale o, meglio, razzista, in sovrapposizione a una distribuzione segregata di beni e servizi anche su base etnica (“Climate Apartheid”).
E allora, focalizzando nuovamente lo sguardo sul fronte locale, per astrazione decrescente rispetto a questi incessanti moti tellurici planetari, cosa sta cambiando, di fatto? Almeno tre elementi. Cambiano le destinazioni funzionali dei territori, soprattutto in termini residenziali e produttivi. Cambia il loro senso condiviso o, più precisamente, il modo in cui nella retorica sulla rigenerazione dei luoghi si cerca di restituire loro un significato, di “risignificarli” attraverso le più diverse ipotesi progettuali di investimento locale. Cambia anche il rapporto tra i portatori d’interesse, ossia tra le amministrazioni pubbliche, le comunità di pratiche, gli imprenditori privati operanti sul mercato, tutti impegnati ad assicurarsi un ruolo nelle direttrici deliberative e operative sullo sviluppo locale.
Il quadro che ne risulta delinea una situazione di estrema fragilità e frammentarietà, una mappatura cangiante del sistema-mondo anche nei suoi tasselli più minuti, di cui la dimensione ecologica non è che l’epifenomeno, e che potrebbe essere forse colto con maggiore efficacia da un altro termine, proposto più recentemente dallo stesso Moore: “Capitalocene”, in luogo dell’ormai abusato “Antropocene”. L’avvertenza insita nella nuova proposta semantica è di spostare il focus della ricerca teorica e dell’azione resistenziale dei movimenti collettivi locali dagli effetti degli stravolgimenti climatici (dei quali tutti ormai siamo abbastanza consapevoli), al ripensamento delle radici politico-economiche strutturalipiù profonde del sistema neo-liberistacapitalistico, che ha la sua ragion d’essere proprio nel processo cumulativo indefinito e nell’estrazione di valore da risorse naturali, ambientali e paesaggistiche che sono, invece, ormai al limite. Purché l’individuazione di possibili presenti e futuri territoriali alternativi, su scala locale, faccia attenzione a non cadere in una serie di trappole concettuali e in parte ideologiche: dalla ormai frusta dicotomia locale-globale, al contrasto troppo polarizzato tra le pratiche progettuali top-down calate dall’alto, di tipo dirigistico - istituzionale, e le espressioni comunitarie di cittadinanza attiva bottom-up, provenienti dal basso, fino alla contrapposizione manichea tra la definizione di “qualità infungibile dei luoghi” - nelle loro prassi produttive, esperienziali e rappresentative - e la standardizzazione neo-coloniale di ogni angolo del pianeta che sarebbe perpetrata dagli imperi economici multinazionali.
Al netto dei debiti accorgimenti, dunque, quali strumenti discorsivi possono essere utili per mettere a tema la riflessione sulla rigenerazione dei paesaggi territoriali locali in un’epoca capitalocen(tr)ica? Anzitutto, il dibattito in materia tende a vertere su tre possibili canali, corrispondenti ad altrettante accezioni del termine “rigenerazione”, entro la cosiddetta “cornice delle tre r”: il primo è quello della “riparazione” dei territori che sono stati via via degradati, sfruttati, sottoposti a politiche di finanziarizzazione ed estrazione di valore selvagge, poco o niente redistributive nei confronti dellepopolazioni locali; il secondo evocauna “ricostruzione” dei territori ormai asfittici, capace di riportarli a un passato ritenuto preferibile rispetto alle condizioni attuali, anche con una vena nostalgica; infine, l’ipotesi più aggressiva propugna una vera e propria “rivoluzione”, che risignifichi completamente i luoghi per rimetterli a valore in un’ottica del tutto innovativa di sviluppo.
L’interrogativo che sottende in filigrana queste tre possibili declinazionidella rigenerazione dei territori locali, ben diverse tra loro, richiama uncrudo adagiomolto popolare durante la guerra del Vietnam, di attribuzione incerta: «È necessario distruggere il villaggio per salvarlo?». Ebbene, la riflessione sulla rilevanza della (ri)costruzione della qualità sociale dei luoghi fornisce una risposta assolutamente negativa a tale quesito. Non solo il villaggio non dovrebbe essere distrutto, in nessun caso, ma sarebbe necessario proteggerlo con la massima cura nelle sue pertinenze originarie e nella sua interezza, di cui la presenza umana è soltanto una delle componenti. L’investimento sulla qualità dei luoghi costituisce, in questo senso, un mezzo d’orientamento per compiere il lungo e periglioso viaggio tra gli oggetti discorsivi di Natura, Paesaggio, Ambiente e Territorio senza ridurre nessuno di essi a un mero fondale, ma provando piuttosto a riequilibrare il dialogo tra l’interlocutore umano e il proprio contesto di riferimento, assunto anch’esso come un attore dotato di interessi legittimi che andrebbero preservati e tutelati di per sé, anche oltre la loro funzionalità subalterna alle preferenze degli occupanti del momento. A essere rimesso in questione dal concetto di “qualità sociale dei luoghi” è insomma lo stesso paradigma dell’”Eccezionalità della specie umana”, richiamato da Salvo Torre (Dominio, natura, democrazia: comunità umane e comunità ecologiche, Milano 2013): in altri termini, in ciascun territorio esisterebbe una “Estetica ed etica del vivente” di respiro molto più ampio rispetto alla sola specie umana, che è certamente la più potente dal punto di vista della distribuzione del potere su ogni altro elemento della Natura; benché questo non significhi che sia l’unica entità depositaria di diritti. Anzi, tutto ciò che confluisce in un ecosistema ambientale e territoriale, e che per ciò stesso ha statuto di esistenza in natura, dovrebbe essere parimenti tutelato, soprattutto in un’era come quella attuale nella quale è sottoposto a una pressione crescentemente insostenibile. Si tratta peraltro di una prospettiva che ha già trovato esempi di accoglimento giuridico in altri ordinamenti, come nel caso dell’attribuzione nel diritto federale statunitense di interessi legittimi direttamente vincolati a elementi paesaggistici naturali (colline, laghi, fiumi, etc.) o antropici (siti sacri di sepoltura per popolazioni autoctone, etc.), anche a prescindere dall’immediato referente umano, e in alcuni casi destinati al godimento di generazioni ipotetiche future che altrimenti sarebbero inevitabilmente private di tali beni.
Già da queste prime assunzioni generali il concetto di “qualità sociale dei luoghi” appare dunque potenzialmente problematico, soggetto a interpretazioni polisemiche, e di certo da maneggiare con cautela. In particolare, nella sua declinazione più direttamente connessa alla produzione agro-alimentare locale, che tratterò più specificamente, sollecita traduzioni eterogenee: corrisponde a un tentativo di resistenza delle comunità locali alla perdita di identità, oltre chea strategie di sfruttamento del loro valore d’uso per finalità di sviluppo economico? Si configura meglio come uno strumento di presidio e addomesticamento endogeno dei territori o presta il fianco a una replica dell’egemonia dei mercanti internazionali di identità locale (come si argomenterà più avanti, citando il caso di una compartecipazione delle multinazionali del settore primario nel sostentamento di specifici mercati contadini di nicchia)? L’estremizzazione del marketing della biodiversità, come indicatore di qualità dei luoghi, può addivenire a sinonimo di eco-disuguaglianza nella tutela territoriale? Senza contare gli innumerevoli paradossi del cosiddetto Green New Deal (Rifkin J., Un Green New Deal globale, Milano2019), che percorrono i sistemi neo-liberisti con una certa naturalezza, e sui quali tuttavia non si entrerà nel merito in queste pagine.
Tenendo fede, invece, all’obiettivo di questo contributo, e cioè proporre una definizione di cosa si intenda per “costruzione della qualità sociale dei luoghi” nel peculiare dominio del settore agro-alimentare locale – per poi mettere in luce alcuni tratti di ambivalenza tra questa retorica discorsiva e gli effetti concreti che ne derivano – sono principalmente due i registri semantici rilevanti.
Il primo rimanda alla dialettica tra specificità e differenziazione dei territori e delle loro espressioni produttive. Costruire la qualità sociale dei luoghi significa, in questa chiave, trovare un connubio tra le specificità degli elementi che caratterizzano un territorio (ad esempio in termini di prodotti locali, non permutabili, unici, caratteristici di quell’area) e la distinzione di questo stesso territorio rispetto a ogni altro. I piccoli territori, le attività imprenditoriali a gestione familiare, le filiere agro-alimentari corte, che chiaramente non possono competere con la grande industria nel mercato primario sul fronte del costo e del prezzo, provano a connettere la propria sostenibilità all’unico elemento che funga da vantaggio comparato, ossia la ri-definizione della qualità ambientale, produttiva, ma anche immateriale che incorporano. Si tratta di un processo di connotazione qualitativa che è largamente costruito, (anche) in chiave resistenziale su scala globale, come espressione, ricerca costante ed esito di un paradigma di unicità territorialmente situata: ciò che è oggetto di una narrazione condivisa e che è messo a valore, in altri termini, è la peculiarità infungibile e la specialità dei prodotti da vendere, che a loro volta sono elaborate come veicoli di una storia radicata, di un retroterra culturale consolidato nel tempo, di un bacino di competenze locali socialmente apprese per via intergenerazionale, ma anche della capacità di saperle comunicare e metterle a resa, elaborando strategie progettuali di posizionamento sul mercato che assai di frequente si auto-definiscono come “identitarie”. La costruzione della qualità dei luoghi, e dei prodotti che li rappresentano, tende a esprimere, dunque, un intento di integrazione virtuosa tra unknow-how tradizionale e un orientamento imprenditoriale innovativo, frutto di una “tradizione cognitiva” (Shils E., Tradition, Chicago2006) inscritta nel tessuto territoriale di riferimento e attivata tramite le reti relazionali che uniscono gli attori e le aziende locali, che si tratti di network produttivi e distributivi (sul piano dell’allocazione entro filiere individuabili), o di canali – di matrice più culturale e simbolica – per la circolazione di saperi, informazioni e pratiche, ciò che di fatto costituisce una forma di sharing economy di medio raggio. In sintesi, questa prima accezione di qualità sociale dei luoghi dichiara una contro-tendenza rispetto agli stilemi della post-modernità antropocenica: specificità non permutabile in luogo di isomorfismo territoriale, differenziazione dei micro-attori produttivi piuttosto che esasperata specializzazione funzionale su scala globale, territorializzazione e integrazione multifunzionale anziché standardizzazionedei prodotti e settorializzazione dei processi.
La seconda definizione di “qualità sociale dei luoghi”, largamente evocata nel settore agro-alimentare, è quella che attinge al terreno concettuale della “tipicità” e “autenticità”, anche in questo secondo caso, precisi processi di costruzione discorsiva condivisa nell’immaginario collettivo locale. Chi decide cosa sia autentico o tipico, quale sia il vantaggio comparato di un territorio rispetto a un altro, lungo meccanismi simili a quelli incardinati nelle definizioni normative (si pensi, ad esempio, a sigle come DOP – denominazione d’origine protetta –che vincolano direttamente determinati prodotti ai territori di provenienza)? In prima istanza, lo decidono le collettività locali composite che sono espressione delle reti territoriali produttive soggiacenti, attraverso la costruzione di un capitale sociale reputazionale condiviso che appunto stabilisce cosa possa essere utilizzato come elemento di riconoscibilità e non permutabilità nel sistema locale d’appartenenza. Di queste attribuzioni simboliche di autenticità e indubitabile pertinenza territoriale, ascritte o associate sia alle dimensioni originarie naturali che antropiche dei luoghi, tali comunità si fanno garanti e promotrici.
Entrambi i processi di costruzione della qualità delle produzioni, sulla base della loro valenza di mediatrici della riconoscibilità dei luoghi ai fini dello sviluppo locale, almeno nel comparto agro-alimentare, costituiscono anche delle strategie di contrasto allo spopolamento di questi stessi territori. Infatti, il tentativo di farne dei nodi di comunanza tra attori economici e comunità, in aree che per definizione sono rubricate come “interne” o “fragili” o come sommatorie di località frammentarie, in un’epoca metamorfica come quella dell’Antropocene, anzitutto mira a promuovere la connessione tra popolazioni diverse. È difficile immaginare che un fenomeno di così lungo periodo, come l’erosione demografica del corpo interno della Sardegna, possa invertire il proprio segno. Tuttavia, si può spostare il baricentro analitico della questione, passando dalla descrizione puntuale e statisticamente avvertita dello stato di malessere demografico dei comuni, riferito alla condizione residente (Bottazzi G., Puggioni G., Comuni in estinzione. Gli scenari dello spopolamento in Sardegna, Cagliari2013) a una prospettiva di diversificazione qualitativa delle popolazioni di interesse, che possono fruire dei territori e renderli vitali anche senza abitarli stabilmente. In quest’ottica, acquisiscono forma popolazioni che restano, che tornano, che arrivano anche nei paesi apparentemente più vulnerabili per l'anagrafe, il cui dinamismo non risulta espresso unicamente dal nucleo residente in senso stretto, ma si compone di flussi, di passaggi ricorrenti, di perlustrazioni occasionali o periodiche, nel loro complesso declinati su scenari di continuità vitale dei luoghi (Cois E., Terre al limite. La cifra del tempo nelle dinamiche di spopolamento, Siracusa 2016).
Le strategie di costruzione della qualità territoriale intercettano questa prospettiva controintuitiva: l’“estinzione”, come unico destino possibile dei territori, appare riduttiva, quanto più essi si rendano capaci di proporsi quali magneti per popolazioni variabili, solo in parte corrispondenti alle estemporanee transumanze lungo le rotte consolidate del turismo estivo stagionale, ma aperte anche a itinerari “esperienziali” sempre meno di nicchia e focalizzati esplicitamente sulle mete meno battute dai circuiti vacanzieri, proprio perché attratte dall’intero corredo discorsivo della loro qualità situata, in termini di, di nuovo, specificità, unicità, tipicità e autenticità. L’offerta di una qualità paesaggistica e ambientale irriducibile alimenta una logica del desiderio di esperienze localizzate che regola un duplice meccanismo attrattivo: per chi viene da fuori e per chi vuole restare, o non andare via. Luoghi qualitativamente attraenti, dunque, che mobilitano geografie umane ulteriori ed eterogenee, in un quadro tutt’altro che desertificato: dai ruralusers a cadenza regolare (Meloni B., Aree interne e progetti d’area, Torino 2017), alle più svariate forme sperimentali di cittadinanza a tempo determinato (come nel caso delle residenze d’artista), fino alla ricerca di opportunità residenziali definitive improntate alla scelta di uno stile di vita molto differente rispetto a quello propriamente metropolitano, bensì più a misura “di persona” o di tipo comunitario (Cersosimo D., Tracce di futuro. Un’indagine esplorativa sui giovani Coldiretti, Roma 2012).
Ma non sono soltanto quelle tra popolazioni diversificate, le forme di connessione innescate dall’investimento sulla qualità indissolubile dei luoghi. Tra le altre declinazioni di questa postura connettiva, in parte promossa dalla definizione operativa delle aree interne in ambito nazionale e regionale (Carrosio G., I margini al centro, Roma 2019; Cois E., a cura di, Aree rurali in transizione oltre la crisi economica, Torino 2020), vi è la risoluzione della classica dicotomia tra spazi rurali e urbani; la promozione di nessi infrastrutturali e di servizio tra luoghi segregati ma non distanti, in direzione di una maggiore accessibilità, senza cui la qualità dei luoghi è destinata a restare un volo pindarico, o un’idea in cerca di attori; la configurazione di trame territoriali produttive, che si dipanano dai percorsi agri-turistici alle filiere artigianali e agro-alimentari; la shared inhabitancetra generazioni diverse, quanto mai urgente in una regione così fortemente invecchiata; e quindi anche il passaggio di testimone, così decisivo per la costruzione della qualità autentica dei luoghi, tra la loro memoria custodita e le prospettive progettuali su cui possano fare conto.
Una volta delineato il frame analitico (il “cosa”) e gli obiettivi principali del processo di costruzione della qualità sociale dei territori (il “perché”), resta da introdurre un ultimo elemento ai fini del completamento dell’argomentazione da cui questo contributo ha preso le mosse, ossia la messa in luce dell’ambivalenza del paradigma della qualità, oltre ogni retorica narrativa e al di là di ogni postura etica in termini di sviluppo locale. Si tratta dei luoghi nei quali di fatto avviene il processo di produzione operativa della qualità nel settore primario (il “dove”), vale a dire le piccole e medie aziende contadine che punteggiano il comparto agro-alimentare. In esse si intersecano e ibridano tutte le forme di regolazione sociale dell’economia che Karl Polanyi, nel suo testo-chiave La Grande Trasformazione (Boston 1944), riteneva potessero assegnarsi ad attori diversi: la funzione redistributiva dell’attore pubblico (dalla scala nazionale a quella locale), lo scambio tra domanda e offerta sul mercato, i meccanismi di reciprocità simmetrica di matrice comunitaria. Si pensi a titolo esemplificativo all’attività agrituristica, una delle funzioni che crescentemente le imprese agricole multifunzionali aggiungono al core produttivo, secondo strategie di diversificazione della propria presenza su mercati non esattamente affidabili (Van derPloeg, J.D., The new peasantries. Struggles for autonomy and sustainability in an era of empire and globalization, London 2008). Certamente questa forma di accoglienza turistica è mercificata e produttiva di valore, ma ad essa si correla anche la produzione di una serie di prestazioni e servizi non direttamente mercificabili, che assumono la valenza di esternalità positive per le comunità locali di riferimento, dalla garanzia del presidio paesaggistico, alla generazione di benessere socio-ambientale e animale diffuso, alla tutela della biodiversità, al coinvolgimento dei consumatori in iniziative formative, all’inclusione di soggetti socialmente vulnerabili in attività ricreative in azienda, fino alla cura dei territori rurali più fragili e periferici, in una sorta di “etica del dono” rinnovata che si riversa attraverso i confini delle imprese su tutto il contesto circostante, proteggendone la qualità originaria, la riconoscibilità e l’attrattività.
Ma è proprio in questo incredibile stato di effervescenza durkheimiano – che è espresso dalla moltiplicazione esponenziale delle esperienze mercificabili e non, nei territori rurali e la cui sommatoria corrisponde al processo di costruzione della qualità sociale di questi luoghi – che si intravvedono in filigrana almeno tre indizi d’ambivalenza.
Il primo è di natura politica. La lettura prevalentemente entusiasta del fiorire incessante di declinazioni di ogni genere del processo di rigenerazione dei territori locali, tutte accomunate dall’origine bottom-up e dalla cifra partecipativa di tipo comunitario, spesso innescata dalla vocazione creativa di singoli innovatori sociali illuminati (De Rossi A., a cura di, Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Roma2018), dovrebbe evitare di sottacere che ad esso non faccia necessariamente riscontro un coinvolgimento dell’attore pubblico. Anzi, la convinzione quasi auto-celebrativa secondo cui le piccole comunità resilienti o i singoli imprenditori proattivi in fondo possano farcela da soli, come apparentemente dimostrato dal florilegio di buone prassi puntualmente localizzate, rischia di fornire un registro giustificativo all’arretramento di una policy strutturale per lo sviluppo territoriale su scala politico-amministrativa. Invece, la retorica sulla qualità sociale endogena dei territori non dovrebbe mai sostituirsi alla voice-strategy nei confronti del referente istituzionale, che è invece chiamato a raccogliere, coordinare, incentivare, promuovere e mettere a sistema le istanze promananti dal tessuto civile.
Il secondo elemento di ambiguità riguarda un’impressione di eccessivo manicheismonella narrazione oppositiva tra l’epica dei cosiddetti “nuovi contadini” (Van derPloeg, op.cit.), tenacemente proiettati con le loro aziende multifunzionali verso orizzonti produttivi del “bello, del buono, del pulito e del giusto” (parafrasando il mantra della filosofia Slow Food), da una parte, e, dall’altra, la fiaba nera degli imperiagro-alimentari multinazionali, dominati da una vis predatoria esclusivamente e arrogantemente dedita all’estrazione di valore e alla standardizzazione delle produzioni, nell’assoluto dispregio dei diritti dei lavoratori e della qualità dei paesaggi territoriali. Una retorica troppo lineare, come questa, che tende a collocare i due attori su poli nettamente e consustanzialmente opposti, potrebbe non rendere del tutto giustizia all’euristica del settore agro-alimentare su scala globale. Appare infatti altrettanto convincente, almeno come pista da esplorare, l’ipotesi che queste due tipologie di attori semplicemente agiscano su mercati paralleli, e giochino in campionati diversi, al punto che la performance degli uni non faccia altro che riprodurre in ultima analisi anche l’esistenza degli altri. La costante resistenziale del piccolo versus il grande, in questa chiave, potrebbe in fondo esprimere quella che Hartmut Rosa ha definito una «frenesia immobile» (Rosa H., Accelerazione e Alienazione, Torino 2015), piuttosto che un effettivo contro-movimento rispetto al modello dominante della produzione globalizzata, comunque non accessibile in termini di competizione reale. Questo non significa di certo che la rivendicazione di una migliore sostenibilità ambientale e sociale nel settore primario, che si è alimentata di lotte assolutamente meritorie nella denuncia dello sfruttamento del capitale ambientale territoriale e della forza-lavoro su scala locale (i casi della riduzione in schiavitù negli aranceti di Rosarno o del caporalato nelle campagne del pomodoro pachino siciliano non ne sono che due, tra gli esempi più noti), sia solo performativa. Anzi. Sollecita piuttosto un’interpretazione più accorta del dilemma Tradizione-Innovazione nel processo di costruzione della qualità territoriale, che può percorrere trasversalmente i mercati di nicchia così come la Grande Distribuzione Organizzata, non smentendo né in un caso né nell’altro la possibilità di essere anch’esso un’espressione capitalocenica, piuttosto che un suo fiero avversario.
In stretta connessione con questo nodo interpretativo, l’ultima traccia di potenziale ambivalenza nel paradigma della qualità sociale dei luoghi e delle loro produzioni più caratteristiche, si dipana dai banchi più vicini della GDO ai territori più remoti al confine canado-statunitense. Sotto il primo profilo, dove si può più facilmente trovare e acquistare oggi la “natura costruita”? Nei settori assegnati dagli ipermercati ai prodotti cosiddetti “locali”, certificati come genuinamente contadini, provenienti da piccole aziende multifunzionali dal documentato cursus honorum nella garanzia di bio-diversità, autenticità e qualità territorialmente riconoscibile. Che si tratti di una facile cosmesi di marketing, volta a delineare un volto etico e compassionevole a parziale compensazione della propria postura d’impresa largamente estrattiva, non è il punto. La cifra più stimolante del ragionamento, quella che appunto ne argomenta l’ambivalenza, è che di fatto il fine di riproduzione del paradigma della qualità territoriale risulta conseguito, al netto di mezzi strumentali. E questo non è che uno dei tratti dell’intelligenza adattiva e strategica del neo-liberismo, talmente astuto da riuscire a inglobare nella propria mission organizzativa perfino quell’elemento di località autentica che lega la sua ratio, nell’immaginario collettivo, al posizionarsi in opposizione alle multinazionali del cibo.
Ma esiste una vicenda esemplare, quasi una storia minima, ancora più illuminante rispetto al fenomeno della finanziarizzazione filantropica delle produzioni agro-alimentari locali. È raccontata in un bel libro dell’antropologa Anna Lowenhaupt Tsing, il cui titolo tradotto in italiano è Il fungo alla fine del mondo. O della vita possible sulle rovine del capitalismo (The Mushroom at the End of the World, Princeton, 2015).Ne è protagonista una piccola comunità di rifugiati di etnia Hmong (originari dell’Asia Sud-orientale) in Oregon, stanziati lungo la catena delle cascate al confine settentrionale con il Canada, a seguito dell’innesco di una classica catena migratoria dall’area d’origine a seguito di persecuzioni politiche. Gli Hmong si sono dedicati ben presto alla raccolta di un fungo selvatico pregiatissimo di enorme valore, anche ambientale, denominato Matsutake, diffuso in aree circoscritte dell’emisfero settentrionale e dotato di una sorprendente capacità rigenerativa di territori compromessi, tipicamente foreste erose o aree contaminate a seguito di dismissioni industriali. Quest’attività, ad altissimo rispetto ambientale e paesaggistico, è divenuta una risorsa di sostentamento strategico per i richiedenti asilo malesi, permettendo loro di raggiungere un’autonomia economica mai conseguita neppure nei luoghi di partenza e, al contempo, di non dovere cedere al rischio di assimilazione culturale e all’obbligo dilavorare in condizioni sottopagate nelle fabbriche di quest’area periferica degli USA. Tuttavia, ed è questo il guizzo d’astuzia neoliberista che ritorna, quest’attività è di fatto finanziata dai canali filantropici degli imperi del cibo, poiché la sopravvivenza di questo nested market a km infinito è resa possibile in quanto l’ultimo pezzo della filiera, e cioè il consumo finale di questo fungo costosissimo, che ben pochi acquirenti possono permettersi, è rappresentato dai ristoranti gourmet di lusso del mercato giapponese, per i quali ha anche un significato rituale connesso alle sue doti rigenerative quasi taumaturgiche. E questo mercato esige intermediari che non possono che essere operativi su scala multinazionale globale, pur generando l’esternalità positiva della sopravvivenza della comunità dei raccoglitori malesi, all’altro capo della filiera.
Dunque, l’estrazione di valore avviene certamente, la sua redistribuzione è con ogni evidenza molto asimmetrica, ma allo stesso tempo è altrettanto effettiva la protezione dei paesaggi territoriali autoctoni e delle risorse umane che li presidiano. E allora, cosa ci racconta questo fungo alla fine del (nostro) mondo? Che non tutto è bianco o nero. Che anche la costruzione del “locale” e dell’autenticità dei luoghi può essere facilmente inglobata e acquisita dalle strategie dei grandi imperi del sistema globale. Che pur in un mondo plasmato e permeato dall’egemonia capitalistica, tuttavia non è necessariamente detto che questa sia la fine della partita, o una sconfitta su tutti i fronti. Che è ancora possibile rintracciare delle sacche di libertà temporanea, proprio sfruttando le anomalie interne al sistema, o i “buchi neri”lasciati nelle mappature globalizzanti, che consentono ancora tattiche di resistenza (De Certeau, M., L’invention du quotidien, Parigi 1990). Oppure, che anche queste eccentricità non siano in realtà anomalie vere e proprie, ma piuttosto l’espressione più ambivalente della carsica capacità adattiva e mimetica del Capitalocene avanzato.
Armungia, 28 settembre 2019.