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Sommario: 1. Introduzione. – 2. Inquadramento storico-normativo. – 3. Normativa regionale e giurisprudenza costituzionale in materia. – 4. Quale intervento normativo?
1. Introduzione
Qualche giorno fa, in un articolo pubblicato sul proprio sito web, il Gruppo di intervento giuridico, da sempre sensibile alle tematiche ambientali, si interrogava su come la nuova Giunta regionale intendesse agire per la risoluzione dell’annosa questione degli usi civici in Sardegna.
Il tema, dunque, è di stretta attualità.
Senza volermi in alcun modo sostituire al decisore politico regionale, spiegherò le ragioni che mi inducono a ritenere come l’unico intervento normativo che possa condurre alla risoluzione del problema in esame sia rappresentato dall’approvazione di una norma di attuazione dello Statuto speciale.
2. Inquadramento storico-normativo
Prima, però, di illustrare gli argomenti a sostegno di questa tesi, risultano necessari alcuni richiami storico-normativi utili per comprendere le ragioni per le qualiil problema degli usi civici in Sardegna si mantenga, a tutt’oggi, ancora irrisolto.
Come è noto, la presenza di usi civici nel nostro territorio non è affatto marginale. Si stima, infatti, che, all’esito dell’accertamento condotto dall’Agenzia Argea, più di un sesto dell’estensione territoriale dell’isola risulterà gravato da uso civico. Si pensi, ancora, che la presenza di usi civici è già stata accertata in più di 330 comuni della Sardegna: sesi considera che i comuni sardi sono 377, è possibile concludere che siano presenti usi civici in almeno il 90% dei comuni della Sardegna.
Si trattadi terreni adibiti a soddisfare i bisogni primari della collettività. In base poi alla specificità del singolo appezzamento, si avranno diritti di uso civico di legnatico, erbatico, pascolo e via discorrendo. Terre, insomma, dalle quali le persone, non in quanto singoli ma in quanto appartenenti alla collettività, possono trarre risorse utili al loro sostentamento.
La rilevanza socioeconomicadegli usi civici è stata indiscussa fino al XVIII secolo quando, con l’emergere delle prime forme di individualismo agrario, tale centralità è venuta man mano sfumando. È stata così avviata una “pervicace politica liquidatoria” (Grossi, 2017) che, nel solco del passaggio da un’economica di sussistenza a un’economia di mercato e consumo, ha consentito il seppur parziale ritorno delle terre ai privati.
Da tale indirizzo è scaturita l’approvazione della l. n. 1766 del 1927, con la quale si è stabilito che, a seguito di accertamento, gli usi civici su terre private potessero essere liquidati tramite scorporo di una parte del terreno, con l’assegnazione della restante parte al Comune. A quel punto, gli usi comunali sarebbero stati ricondotti a due diverse categorie: da un lato, gli usi essenziali, il cui esercizio si riconoscesse necessario per soddisfare i bisogni primari della vita; dall’altro, gli usi utili,vale a dire i diritti «di servirsi del fondo in modo da ricavarne vantaggi economici, che eccedano quelli che sono necessari al sostentamento personale e famigliare». Ebbene, mentre per gli usi della seconda categoria (terreni a vocazione agraria) si è prevista la ripartizione in quote tra le famiglie di coltivatori residenti, per gli usi del primo tipo, ossia quelli con vocazione silvo-pastorale, si è stabilito che rimanessero oggetto dei vincoli di imprescrittibilità, inalienabilità e indisponibilità, precludendone così la circolazione.
Sennonché, nel medesimo provvedimento si stabiliva altresì che la trasformazione o addirittura la cessazione dell’uso fosse possibile previa autorizzazione da parte dell’amministrazione regionale e ministeriale. All’esito, poi, di tale processo, i terreni che fossero rimasti gravati da uso civico avrebbero potuto mutare destinazione,previa autorizzazione da parte del Ministero, solo allorquando la nuova destinazione rappresentasse «un reale beneficio per la generalità degli abitanti». Sullo sfondo traspariva, evidentemente, la volontà di procedere alla conversione dei terreni dalla destinazione boschiva a quella agricola affinché potessero essere maggiormente “produttivi”.
Ma è proprio alla concreta applicazione di tale previsione che è possibile far risalire l’origine di alcuni casi particolarmente spinosi che attendono ancora una soluzione. È alla luce, infatti, di tale soluzione normativa che sono stati autorizzati, in quegli anni, in Sardegna, mutamenti di destinazione d’uso che ben poco avevano a che fare sia con la destinazione silvo-pastorale che con quella agraria. Si pensi, ad esempio, ai casi in cui alla destinazione boschiva si è sostituita quella edificatoria, con la conseguenza che sono state modificate irreversibilmente le caratteristiche originarie dei terreni, senza che vi fosse, peraltro, come la disposizione imponeva, un reale ritorno per la collettività. Una prassi, questa, certamente figlia di una distorsione normativa, ma che si poneva in perfetta linea di continuità con una visione produttivistica dei terreni e con quello spirito volto alla liquidazione delle terre che aveva mosso il legislatore di quegli anni.
Tuttavia, i profondi mutamenti economico-sociali intervenuti nelsecondo dopoguerra hanno modificato radicalmente l’orientamento del legislatore nel senso di una conservazione unitaria del patrimonio civico. Sono venuti così in evidenza nuovi profili di interesse generale, quali quello paesaggistico ed ambientale, che hanno soppiantato quella visione meramente produttivistica che aveva accompagnato, fino a quel momento, la gestione delle terre civiche.
Da tale indirizzo è scaturita l’approvazione della legge Galasso, n. 431 del 1985, la quale ha sottoposto a vincolo paesaggistico le aree gravate da uso civico. Un’inversione di rotta che, secondo alcuni, avrebbe dato il là a una vera e propria “palingenesi degli usi civici”. Ed effettivamente, questo nuovo orientamento ha trovato conferma nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, il d.lgs. n. 42 del 2004, con il quale, nel ribadire la sottoposizione degli usi civici a vincolo paesaggistico, si è previsto che la loro disciplina trovasse cittadinanza nei piani paesaggistici regionali, per la cui approvazione è richiesto, tuttavia, il raggiungimento di un’intesa tra lo Stato e la Regione. In altri termini, dovendo essere gli usi civici disciplinati nel piano paesaggistico, ed essendo quest’ultimo oggetto di concertazione, viene da sé che qualsiasi intervento in materia debba transitare da un accordo con lo Stato.
In definitiva, è possibile concludere che nel corso degli anni la concezione degli usi civici è profondamente mutata: da terre considerate come mero strumento di produzione a terre che, anche per il loro rilievo storico e per certi versi simbolico, risultano meritevoli di tutela e valorizzazione.
3. Normativa regionale e giurisprudenza costituzionale in materia
È su questo contesto di fondo che si innestano i più recenti interventi normativi regionali.
Prima, però, di entrare in medias res, è necessario ricordare che la Sardegna, in quanto Regione ad autonomia speciale, può vantare su tutta una serie di materie una potestà legislativa primaria, vale a dire un titolo d’intervento che, almeno in astratto, dovrebbe garantirle un margine di autonomia molto ampio nella disciplina di tali materie. Il caso vuole che tra queste rientri anche quella relativa agli “usi civici”, prevista nell’art. 3, c. 1, lett. n), dello Statuto speciale.Ne conseguirebbe, dunque, il riconoscimento di un ampio margine di autonomia nel disciplinare la materia de qua.
Purtroppo, però, le cose non stanno così.
Infatti, la Regione, nel disciplinare le materie di potestà primaria, non gode di una libertà assoluta, ma deve rispettare i limiti previsti nel medesimo art. 3, tra i quali spicca il limite delle norme fondamentali di riforma economico-sociali della Repubblica. Ciò significa che allorquando lo Stato ritenga un suo provvedimento meritevole di tale qualifica, questo inciderà, al punto di annullarlo, sul margine di autonomia legislativa riconosciuto alla Regione dallo Statuto. La Sardegna, dunque, ancorché disponga di un titolo competenziale primario, trova un limite penetrante al suo intervento nelle decisioni assunte dal legislatore statale in materia di usi civici.
È questa la principale ragione per la quale i diversi interventi normativi regionali sono stati puntualmente bocciati dalla Corte costituzionale, la quale è sempre stata risoluta nel ribadire che, sebbene la Sardegna disponga di una competenza primaria in materia, questa è da intendersi limitata dalle previsioni contenute nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, ritenute norme fondamentali di riforma economico-sociale. Ne deriva che qualsiasi intervento normativo in materia di usi civici deve necessariamente scaturire da un accordo con lo Stato.
Sono stati tre, in particolare, gli interventi normativi regionali oggetto di ricorso innanzi alla Corte.
Un primo intervento si è avuto con la l.r. n. 19 del 2013, nella quale si prevedevache la Regione procedesse alla stesura di un piano straordinario di accertamento della presenza di usi civici sul territorio. Si prevedeva, inoltre, che i Comuni, una volta certificata la sussistenza dell’uso civico nel proprio territorio, potessero proporre «permute, alienazioni, sclassificazioni e trasferimenti dei diritti di uso civico secondo il principio di tutela dell’interesse pubblico prevalente». Misure, però, ritenute dalla Corte lesive del richiamato principio dell’accordo, non avendo la Regione coinvolto lo Stato né nella fase di accertamento della presenza di usi civici sul territorio, né tantomeno nella decisione sul loro futuro regime giuridico.
Un secondo intervento normativo si è avuto, ancora, con la l.r. n. 5 del 2016, nella quale il legislatore regionale ha previsto, tra le altre cose, la sclassificazione di alcuni terreni ad uso civico siti nel territorio di Irgoli e Orosei per i quali fosse stata accertata la perdita della destinazione funzionale originaria. Ma anche questo tentativo ha incontrato, com’era prevedibile, la scure della Corte costituzionale. Anzitutto, per il contrasto con il principio della copianificazione Stato-Regione, e, in secondo luogo, per il macroscopico contrasto con il principio di generalità e astrattezza delle leggi.
Occorre, infine, dar conto del più recente intervento normativo, che si è avuto con la l.r. n. 11 del 2017. A differenza delle precedenti soluzioniadottate, il legislatore regionale ha optato in questo caso per una soluzione normativa che definirei “meno netta”, prevedendo la possibilità per i Comuni, «quando ciò comporti un reale beneficio per i propri amministrati», di richiedere «il trasferimento dei diritti di uso civico dai terreni interessati in altri terreni di proprietà comunale, ove esistenti, idonei all’esercizio dei diritti di uso civico nelle forme tradizionali e non tradizionali».
Ma anche tale ipotesi, ancorché ragionevole, non ha incontrato il favore della Corte costituzionale, la quale ha ribadito l’impossibilità, se non nei casi tipicizzati e in accordo con lo Stato, di procedere alla rimozione del vincolo paesaggistico dai terreni gravati da uso civico.
La Regione, insomma, non può assumere, unilateralmente, decisioni che liberino dal vincolo ambientale porzioni del proprio territorio, a maggior ragione quando si tratti di terreni sui quali grava il diritto di uso civico. Oltre alle ipotesi di mutamento di destinazione, che però si limitano a rimodellare il vincolo ambientale sul medesimo terreno, devono assolutamente sottostare al principio dell’accordo con lo Stato le ipotesi, del tutto residuali, che sottraggono in via definitiva il bene alla collettività.
Un indirizzo siffatto emerge, a ben osservare, anche dal più recente intervento normativo statale in materia, che si è avuto con la l. n. 168 del 2017. Nell’occasione il legislatore ha ribadito che il regime degli usi civici si mantiene quello della «inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale». Ha altresì ribadito, in linea con ciò, che il vincolo paesaggistico previsto nell’art. 142, c. 1, lett. h), del Codice dei beni culturali e del paesaggio, «garantisce l’interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici per contribuire alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio».
Insomma, dalla giurisprudenza costituzionale e dal più recente intervento normativo stataleemerge come i margini di intervento per la Sardegna, per la risoluzione dell’annosa questione degli usi civici, siano sostanzialmente nulli.
Sennonché, è lo stesso provvedimento richiamato a stabilire, altresì, che i principi in esso contemplati «si applicano alle Regioni a Statuto speciale e alle Province autonome di Trento e Bolzano in conformità ai rispettivi statuti e alle relative norme di attuazione».
Questa previsione lascia, a mio avviso, un importante spiraglio aperto.
4. Quale intervento normativo?
Stando così le cose, che fare?
Credo che, accertata l’inefficacia di interventi tramite legge regionale, le soluzioni normative percorribili si riducano sostanzialmente a due.
In primo luogo, come proposto nell’articolo pubblicato qualche giorno fa sul sito del Gruppo d’intervento giuridico, si potrebbe ipotizzare un’iniziativa legislativa promossa dalla Regione Sardegna a livello statale, la quale, integrando la disciplina prevista nella richiamata l. n. 168 del 2017, preveda la possibilità, in taluni casi, di operare un trasferimento dei diritti di uso civico da un terreno a un altro.
Tale proposta, però, pur percorribile, sconta, a mio parere, alcuni punti deboli.
Anzitutto, non è affatto detto che il legislatore statale accolga un’istanza di questo tipo. In secondo luogo, sembra che siano numerose le Regioni interessate a un’integrazione siffatta, ragion per cui resta assai dubbio il fatto che si possa raggiungere un livello di pressione tale da convincere il legislatore a procedere in questa direzione. Infine, quand’anche il legislatore statale decidesse di intervenire, il suo intervento non riuscirebbe a cogliere appieno le peculiarità del caso sardo, dovendo evidentemente disciplinare il fenomeno avendo riguardo alla sua dimensione nazionale.
Ecco allora che mi pare più convincente un’altra strada, che è quella rappresentata dall’approvazione di una norma di attuazione dello Statuto speciale. Come è noto, lo Statuto sardo consente ad una Commissione di quattro membri, di cui due di nomina statale e due di nomina regionale, di proporre le «norme relative al passaggio degli uffici e del personale dallo Stato alla Regione, nonché le norme di attuazione» dello Statuto. Si tratterebbe, dunque, di approvare una norma di attuazione dell’art. 3, c. 1, lett. n), dello Statuto, il quale, come si è anticipato, attribuisce alla Regione una potestà legislativa primaria in materia di usi civici.
I vantaggi nel percorrere una strada di questo tipo sarebbero molteplici.
Anzitutto, per la semplice ragione che èmolto più facile addivenire a un accordo in sede di Commissione paritetica piuttosto che, come sarebbe necessario qualora si optasse per la legge statale, all’interno delle due Camere. In secondo luogo, perché le norme di attuazione, per il loro procedimento di approvazione e per la loro particolare natura giuridica, «possiedono un sicuro ruolo interpretativo ed integrativo delle stesse espressioni statutarie e non possono essere modificate che mediante atti adottati con il procedimento previsto negli Statuti, prevalendo così sugli atti legislativi ordinari».
Ne derivano due considerazioni decisive. Intanto, il fatto che, essendo la norma di attuazione figlia di un accordo con il Governo, è assai improbabile che lo stesso possa impugnare la medesima norma innanzi alla Corte. In secondo luogo, avendo la norma di attuazione una particolare forza passiva, ne consegue che qualsiasi intervento legislativo statale successivo non sarebbe produttivo di effetti nei confronti della Regione Sardegna. Da ultimo, ma non per importanza, la norma di attuazione, pur essendo approvata sotto forma di decreto legislativo, si mantiene un attopienamente riconducibile alla dimensione regionale. Ciò si traduce nella possibilità di disciplinare il fenomeno degli usi civici tenendo in considerazione le nostre peculiarità, sia con riferimento ai casi in attesa di risoluzione, sia con riferimento alle scelte da operare per la tutela ma soprattutto per la valorizzazione del nostro patrimonio civico. Sarebbe l’occasione per incoraggiare, come si legge nella nota di presentazione al Convegno, modelli di sviluppo che, coinvolgendo attivamente le comunità locali, abbiano come obiettivo primario quello di riconciliare l’uomo e la natura.
Armungia, 28 settembre 2019.