Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
La legge 42 che introduce e disciplina il federalismo fiscale è legge dello Stato da ormai 10 anni, ma ancora fatica a decollare. I problemi che hanno ostacolato rendono e tuttora rendono difficile l’introduzione in Italia di un sistema federale alla fin fine si riducono nella incapacità di pervenire ad una soluzione condivisa nel riparto delle risorse. I territori che si sono più impegnati nella trasformazione dello Stato in senso federalista (i più ricchi) l’hanno fatto nella convinzione che fosse giusto ed eticamente corretto che le popolazioni delle regioni che contribuiscono maggiormente alla produzione del PIL e che conseguentemente garantiscono un maggior gettito fiscale abbiano il diritto di poter spendere in loco l’ammontare dei tributi versati.
Eppure nessuno nega che in un territorio povero molti più cittadini si rivolgono ai servizi sociali, molte più persone si rivolgono ai “Pronto Soccorso” non potendosi permettere specialisti e cure non gratuite, molti più individui si rivolgono ai comuni per ottenere sussidi di ogni tipo. Per garantire condizioni di vitaaccettabili il fabbisogno finanziario di un territorio povero (che normalmente ha le casse vuote) sono rilevantemente più alte di quelle di un territorio ricco (che ha invece solitamente le casse piene). In sostanza i fabbisogni di un territorio sono inversamente proporzionali ai livello del reddito e in un sistema statuale che si prefigge di garantire uguali diritti non deve stupire se la spesa pubblica risulta più alta dove risulta più basso il gettito fiscale. Sarebbe irragionevole e iniquo il contrario.
La negativa percezione che si ha della regionalizzazione della spesa pubblica nasce dal convincimento, negli anni andato via via crescendo, che sia giusto ritenere che il gettito tributario maturato in un determinato territorio debba permanere nella disponibilità di quel territorio che l’ha generato e che pertanto in quello stesso territorio debba essere speso. Come se i cittadini anzichè sentirsi italiani dovessero sentirsi, solo o soprattutto, veneti, pugliesi, emiliani ecc…
Non può e non deve essere così. Tutti i tributi erariali, ovunque maturati e versati, appartengono allo Stato che ha il dovere di amministrarli avendo riguardo non dei luoghi di maturazione, ma dei bisogni. Senza questa logica non c’è Stato, fermo restando che lo stesso Stato, nell’intento di rendere più efficaci le misure dirette alla salvaguardia delle pari opportunità e dei pari diritti di cittadinanza su tutto il territorio nazionale, può concedere alle regioni anche un’ampia autonomia finanziaria e una compartecipazione ai tributi erariali, tenendo però sempre conto del contesto nazionale e dei bisogni regionali.
Però oggi, dopo anni di continuo bombardamento mediatico diretto a enfatizzare gli aiuti “generosamente” concessi dalle regioni ricche a quelle più povere, dire che si possono pretendere maggiori risorse perchè si ha un alto residuo fiscale non è più considerato una “cretinata” (l’equivalente di chiedere più medicine perchè si sta bene), così come non appare più meritevole di riprovazione chi sostiene che bisognerebbe quantomeno contenere e ridurre il flusso di risorse statali indirizzate ai territori meno sviluppati caratterizzati da bassi livelli di gettito fiscale, come se la povertà (che non genera alti livelli di gettito fiscale) fosse una colpa e non un male da risolvere. E sono da respingere anche quelle osservazioni dirette a dipingere il centro sud come popolato da evasori e governato da amministrazioni incapaci. Beninteso molto di quanto viene detto è vero e deve essere combattuto, ma non risulta che questo non valga anche per i ricchi territori del nord.
Quindi non facciamoci trovare impreparati, non lasciamoci suggestionare quando sentiamo dire che la Regione X (che produce un basso gettito tributario) ha ricevuto in “regalo” 1 miliardo oppure 10 miliardi, mentre invece la ricca Regione Y non ha avuto la disponibilità neppure dell’ammontare riscosso nel proprio territorio, perché se si potesse ragionare con strumenti atti a misurare effettivamente i bisogni dei territori per garantire realmente il rispetto dei principi stabiliti nella nostra carta costituzionale magari potremmo anche arrivare a concludere che in un sistema statale più equo la Regione povera X avrebbe dovuto ricevere 2 miliardi anziché riceverne 1 oppure 20 miliardi anziché 10.
Tutti sanno che la legge 42/2009 stabiliva che i problemi legati alla ripartizione delle risorse dovessero essere superati con l’uso di uno strumento apposito, una bussola denominata “fabbisogno standard”. Pochi però ricordano perché poi questo fondamentale strumento fu prima svilito e poi di fatto accantonato. All’indomani dell’approvazione della legge 42, nella mia veste di coordinatore tecnico della Commissione finanziaria delle regioni a statuto speciale, ebbi modo di constatare che la Conferenza dei presidenti delle Regioni animata da grandi aspettative si mise subito al lavoro per giungere alla determinazione dei fabbisogni e dei costi standard. Il compito fu assegnato ad agenzie e organismi specializzati. Le prime elaborazioni però delusero tutti. Sul fronte dei costi standard le povere regioni del sud non facevano una bella figura ma le sorprese arrivarono soprattutto dalle prime elaborazioni dei fabbisogni standard che turbarono le aspettative proprio di coloro i quali (i rappresentanti delle regioni ricche) lamentavano trattamenti di sfavore ed erano convinti di poter rivendicare, con argomentazioni di carattere scientifico, il diritto a maggiori trasferimenti erariali.
Da allora il modello basato su una seria e rigorosa elaborazione dei fabbisogni standard ha perso quella forza propulsiva e quel carattere innovativo che aveva segnato i lavori di approvazione della legge 42, lasciando spazio nel corso degli anni a meccanismi sempre più improntati al concetto di spesa storica e aprendosi alla pericolosa idea che si dovessero premiare i territori che maggiormente contribuivano alla formazione del PIL.
Cosa fare per difendersi da questa deriva che renderebbe le regioni povere ancora più povere e le ricche ancora più ricche e alla porterebbe al disfacimento della nazione?
Per fortuna la legge 42, sebbene poco e talvolta male applicata, è ancora legge dello Stato. Infatti non sempre si rammenta che l’introduzione del federalismo fiscale deve essere realizzato nell’invarianza dei saldi di finanza pubblica e senza maggiori oneri a carico di Stato o Regioni. Per le regioni a statuto ordinario questo significa che le maggiori risorse cui avrebbero diritto per l’esercizio delle funzioni trasferite ad esse dallo Stato, non può superare l’ammontare delle risorse prima impiegate dallo Stato per lo svolgimento di quelle stesse funzioni. E poiché si va verso una soppressione delle assegnazioni statali, le nuove entrate regionali non potranno che assumere la forma di compartecipazione ai tributi erariali le cui aliquote dovranno essere necessariamente determinate per ogni regione in maniera tale da garantire ad ogni Regione quelle somme corrispondenti alle cessate spese statali. Non di più non di meno.
Ma come si ripercuote la legge 42 sui rapporti tra autonomie rafforzate e Stato che rimane sempre titolare della fondamentale funzione di coordinamento di finanza pubblica?
In questi ultimi 8 anni l’ingerenza statale nelle casse delle Speciali è stata crescente e dal 2012 un ingente flusso di risorse è stato dirottato all’erario dello Stato soprattutto mediante l’applicazione dei così detti accantonamenti d’entrata. Come difendersi da una Ragioneria generale dello Stato sempre impegnataa inventare nuove forme di tagli in danno delle Speciali?
Paradossalmente, ad avviso dello scrivente, l’ancora di salvezza può essere rinvenuta ancora una volta nella richiesta di una corretta e rigorosa applicazione dell’art. 27 della legge 42 del 2009. E bisogna ripartire da un nuovo accordo facendo esperienza dei gravi e numerosi errori commessi nel 2014.
Infatti la legge 42 non stabilisce solo i doveri, ma fissa anche i diritti delle regioni, di tutte le regioni comprese quelle a Statuto Speciale. Al primo comma dell’art 27 ( richiamando l’art. 119 della Costituzione)la legge mette in risalto i principi di solidarietà e di coesione sociale:
“Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano, nel rispetto degli statuti speciali, concorrono al conseguimento degli obiettivi di perequazione e di solidarietà ed all’esercizio dei doveri da essi derivanti, nonché al patto di stabilità interno e all’assolvimento degli obblighi posti dall’ordinamento comunitario, secondo criteri e modalità stabiliti da norme di attuazione dei rispettivi statuti….”
E poi al comma 2 del medesimo art 27, la legge disciplina anche gli obblighi dello Stato nei confronti dei territori più svantaggiati e stabilisce i parametri di cui tener conto quando si deve determinare la misura dei contributi gravanti sulle regioni a statuto speciale:
“le norme di attuazione di cui al comma 1 tengono conto della dimensione della finanza delle predette regioni e province autonome rispetto alla finanza pubblica complessiva, delle funzioni effettivamente esercitate e dei relativi oneri, anche in considerazione degli svantaggi strutturali permanenti e ove ricorrano dei costi dell’insularità e dei livelli di reddito pro capite che caratterizzano i rispettivi territori….”
Il legislatore quindi nel riaffermare che tutte le regioni hanno l’obbligo di contribuire al risanamento della finanza pubblica e al rispetto degli obblighi comunitari non dimentica di venire in soccorso dei territori più bisognosi e nel prevedere una calibrazione dei contributi da far gravare sulle regioni impegna lo Stato, come si evince dalla norma sotto riportata, ad adottare misure perequative in favore delle regioni più svantaggiate.
“Le medesime norme di attuazione disciplinano altresì le specifiche modalità attraverso le quali lo Stato assicura il conseguimento degli obiettivi costituzionali di perequazione e solidarietà per le regioni a statuto speciale i cui livelli di reddito pro capite siano inferiori alla media nazionale….”
Il legislatore stabilisce anche che nelle more dell’approvazione delle norme di attuazione dello statuto, i rapporti tra Stato regione siano regolati da particolari accordi che lo Stato deve stipulare con ogni RSS.
Tutto ciò premesso è bene precisare che il gravoso esercizio del coordinamento della finanza pubblica che grava sul MEF non deve comportare necessariamente il taglio delle entrate della Sardegna.
E’ evidente che nel tavolo delle trattative tra Stato e Regione la forza contrattuale dello Stato sia di gran lunga superiore a quello della Regione. Questo però non significa che la Regione debba rinunciare a combattere per la salvaguardia delle proprie prerogative o, peggio, limitarsi a sperare che un atteggiamento estremamente collaborativo induca il Governo Centrale ad avere un occhio di riguardo nei confronti della Sardegna. Accettare di sedersi al tavolo di contrattazione comporta il dovere di esigere il riconoscimento della pari dignità e pretendere che lo Stato accetti lealmente di prendere in considerazione le rivendicazioni della Regione trovando il modo di inserirle nel patto che si va delineando.
Invece nello storico accordo stipulato nel 2014 nei sei punti che compongono l’accordo siglato nel luglio del 2014 non c’è traccia di nessuna delle storiche rivendicazioni regionali (alcune delle quali già riconosciute legittime anche con sentenze della Corte Costituzionale). Ad esempio non c’è traccia di quell’aumento del livello di spesa regionale commisurato all’aumento del livello delle entrate generato dall’entrata a regime del novellato art. 8 dello statuto (in termini reali si concorda invece una riduzione della capacità di spesa); non c’è traccia delle misure compensative a cui avrebbe avuto diritto la regione per lo stato di insularità; non c’è traccia delle misure perequative che avrebbero dovuto ridurre il gap infrastrutturale isolano rispetto al resto del territorioe non c’è neppure nessun richiamo all’ammontare dei maggiori costi sostenuti annualmente dalla Sardegna per l’energia.
Non c’è neppure traccia della richiesta di immediata applicazione delle sentenze della Corte Costituzionale che aveva affermato l’inapplicabilità alla regione delle riserve erariali e il diritto della Sardegna a compartecipare a tutte le entrate erariali statali (non solo quelle tributarie) compresi i proventi derivanti dai giochi (questi riconoscimenti verranno solo dopo). E non si dice nulla della finanza locale sostanzialmente scaricata sulla regione.
Perché la sottoscrizione dell’accordo non è stata condizionata all’esplicito riferimento nello stipulando patto ai maggiori oneri che la Sardegna deve annualmente sostenere? Perché la Regione non ha preteso che nell’accordo venissero contabilizzati anche i 660 milioni di euro di maggiori oneri sostenuti annualmente per lo stato di insularità e i 430 milioni di spesa aggiuntiva sostenuta annualmente per i più alti costi dell’energia?
Quello del 2014 èstato un accordo che è risultato molto (troppo) vantaggioso per il MEF che ha potuto imporre ingenti accantonamenti senza doversi preoccupare delle misure perequative che avrebbe dovuto mettere in campo in favore della Sardegna.
Come si evince dai dati sotto riportati nel periodo 2012-2018 gli accantonamenti sono costati alla regione oltre 4.012 milioni di euro.
2012 | 2013 | 2014 | 2015 | 2016 | 2017 | 2018 |
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Accantonamenti (in milioni di euro) | 268,6 | 431,5 | 578,4 | 681,7 | 683,9 | 683,9 | 684,2 |
Da notare che fra gli accantonamenti posti a carico della regione sono anche ricompresi quelli, attinenti alla sanità, che erano stati debitamente impugnati dalla Regione ma che poi sono stati inopinatamente ritirati. Questa tipologia di accantonamenti, dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionalenel 2015, è costata sino al 2018 alla regione oltre 577 milioni di euro(102 milioni solo nel 2018, come si evince dai dati sotto riportati). 577 milioni che in base al pronunciamento della consulta sarebbero dovuti rimanere nelle casse della regione.
2012 | 2013 | 2014 | 2015 | 2016 | 2017 | 2018 |
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Accantonamenti (relativi a sanità) | 24,6 | 65,6 | 82,7 | 99,4 | 101,7 | 101,7 | 101,9 |
Nel 2014 anno in cui viene firmato l’accordo con il ministro dell’economia, le entrate tributarie della Sardegna registrano una sostanziale riduzione. Nonostante si fosse affermato che l’accordo avrebbe garantiro un aumento delle risorse disponibili, la realtà freddamente fotografata dai numeri sotto riportati, estrapolati dai documenti contabili della regione, dimostra ben altro.
Ante accordo | Post accordo |
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2010 | 2011 | 2012 | 2013 | 2014 | 2015 | 2016 | 2017 | 2018 |
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Accertamenti entrate titolo 1 bilancio region.al netto accant. (in mln di euro) | 6.670 | 6.554 | 6.568 | 6.588 | 5.708 | 5.949 | 6.289 | 6.280 | 6.467 |
Nel contempo i trasferimenti statali in favore degli enti locali isolani, non bisogna dimenticarlo, si riducevano drasticamente, aggravando la crisi che già colpiva il precario sistema socio-industriale isolano.
Tutto ciò ha generato un non equilibrato rapporto tra entrate e spese che dopo molti anni ha costretto l’amministrazione regionalea fare un massiccio ricorso al mercato finanziario per poter onorare i debiti contratti e rispettare i vincoli di bilancio imposti dalle nuove regole contabili.
Oggi la regione è chiamata a sottoscrivere un nuovo accordo con lo Stato e bisogna stare attenti a evitare gli errori commessi in passato. Ma i danni subiti sono ingenti e di lunga durata. Recuperare il terreno perduto non sarà facile e forse nemmeno possibile.
Comunque la sottoscrizione del nuovo accordo, dovrà essere condizionata al rispetto dell’art. 27 della legge 42 facendo espressamente riferimento agli obblighi statali di perequazione nei confronti della Sardegna. E pertanto,a sommesso parere dello scrivente, nel nuovo patto, fra le altre cose, non potrà nontrovare allocazione l’impegno formale dello Stato a tener debitamente conto (anche tramite un onorevole compromesso) della onerosissima tassa occulta annualmente pagata dalla Sardegna sotto forma di maggiori costi energetici e di maggiori oneri per lo stato di insularità che da soli valgono almeno il doppio degli accantonamenti richiesti alla Sardegna per il 2019.
Cagliari, 14 ottobre 2019.