Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
Il nostro è uno Stato regionalista. Le autonomie regionali non hanno solo poteri amministrativi e gestionali, ma esercitano il potere legislativo oltre che nelle materie nelle quali hanno competenza esclusiva, anche in quelle in cui è prevista la competenza concorrente e integrativa. La riforma costituzionale del 2001 ha introdotto un principio tipico degli Stati federali laddove all’art. 119, comma 4 si afferma che “Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. Il limite della riforma del 2001 è che se da un lato si sono estesi i campi di intervento delle autonomie regionali ordinarie, dall’altro lato non hanno valorizzato il ruolo delle Regioni, ordinarie e speciali, negli organi centrali dello Stato. Nella sostanza, nella configurazione del nostro sistema regionalistico, è rimasto il limite originario di una Costituzione sostanzialmente bifronte: autonomista nelle periferie regionali, centralista negli organi legislativi, esecutivi e di controllo a livello statuale.
Il bicameralismo è tipico degli Stati federali nei quali una delle due camere rappresenta gli Stati federati e, elemento determinante, con poteri differenti sul piano politico, su quello legislativo e nei poteri di controllo. Negli USA il senato è composto da 100 senatori, due per ogni Stato, indipendentemente dalla popolazione (la California con 40 milioni di abitanti ha 2 senatori, come l’Alaska e il Vermont che hanno rispettivamente 800mila e 600mila abitanti). In Germania il Bundesrat, la seconda Camera rappresenta i governi dei Lander, con 69 componenti eletti per scaglioni, con numeri differenti a seconda della popolazione. Nella stessa Francia, che non è uno Stato federale e ha due camere, il Senato di 348 membri viene eletto a suffragio indiretto dai rappresentanti delle diverse autonomie regionali, dipartimentali e municipali. Sia in Germania che in Francia la seconda Camera non vota la fiducia al governo.
L’Italia, invece, ha un meccanismo di elezione sostanzialmente analogo per le due camere, con minime differenze per garantire la presenza delle realtà regionali, ma con poteri assolutamente identici. Si è appena varata una riforma costituzionale che prevede un taglio rilevante di deputati e senatori, ma restano gli stessi poteri per Camera dei deputati e Senato. Anzi, dal punto di vista della rappresentatività regionale la situazione è destinata a peggiorare in quanto si prevede sia una riduzione della presenza dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della repubblica sia modifiche alla legge elettorale che dovrebbero eliminare il conteggio dei resti su base regionale.
Si parla di autonomia differenziata a favore delle Regioni più ricche (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna rappresentano il 40,13% del PIL nazionale del 2017) e si trascura il fatto che la questione autonomistica oggi in Italia non è tanto nelle “periferie” regionali, ma nella presenza e nel ruolo delle Regioni negli organi decisionali nazionali, legislativi e amministrativi. L’obiettivo principale per garantire ed ampliare il potere delle Regioni dovrebbe essere quello di rafforzare il loro ruolo negli organi centrali dello Stato, così come sarebbe interesse degli organi centrali dello Stato la responsabilizzazione delle Regioni nelle decisioni di spesa e nella ottimizzazione delle modalità attuative delle competenze regionali. Del resto anche la gran parte delle competenze esclusive delle Regioni, incluse quelle a Statuto speciale (penso ad esempio all’agricoltura in Sardegna), sono condizionate da decisioni di livello europeo, decisioni assunte in organismi ai quali partecipano i governi. Se le Regioni sono escluse dalla partecipazione alle decisioni degli organi centrali dello Stato di fatto vengono private dell’esercizio effettivo anche nelle materie formalmente di potestà esclusiva regionale. Ciò è tanto più rilevante, naturalmente, per le Regioni meno sviluppate e con ricchezza inferiore rispetto a quelle del Nord Italia. Invece si sta lavorando al contrario: rafforzando le Regioni più forti e indebolendo quelle più deboli, incluse quelle ad autonomia speciale.
Le Regioni ordinarie sono più forti, al di là degli Statuti, per due ragioni:
1- perché sono 15 e hanno naturalmente una maggiore forza contrattuale. Nate nel 1970, in 7 anni ottennero con il DPR 616 del 1977 il più corposo trasferimento di funzioni e risorse effettuato dagli organi dello Stato. La Sardegna ottenne tale trasferimento con il DPR 348, formalmente due anni dopo, ma in realtà nel 1983 quando vennero attribuite le risorse finanziarie per l’esercizio di tali nuove funzioni, contestualmente alla riforma dell’art.8 del nostro Statuto speciale che definì le nuove entrate regionali dopo la riforma tributaria nazionale;
2- perché le Regioni del Nord hanno la forza economica e infrastrutturale che le Regioni meridionali, anche quelle speciali, non hanno. Voglio ricordare che la sola Lombardia con un PIL di 366 miliardi di Euro, pari al 21,81% del PIL nazionale produce una ricchezza quasi pari all’intero Mezzogiorno incluse le isole (PIL 2017 pari a 382 miliardi di Euro, pari al 22,74% del PIL nazionale). La riforma del 2001 ha rafforzato notevolmente la possibilità per le Regioni ordinarie di esercitare maggiori poteri, mentre ha sostanzialmente lasciato intatti i poteri delle Regioni speciali.
La logica degli Stati federali, cui si collega la riforma del 2001 che ha introdotto, a livello periferico regionale, principi “quasi federali”, pur con i limiti di una mancata responsabilizzazione delle Regioni negli organi centrali dello Stato, si ispira ad obiettivi tendenti a realizzare un livello più elevato di unità dello Stato. Come, appunto, avviene negli Stati federali più importanti al mondo. Penso agli USA e alla Germania dove l’appartenenza ai diversi Stati federati non sminuisce il forte legame dei cittadini con lo Stato federale, anzi lo rafforza. Le proposte avanzate dalla Lombardia e, soprattutto, dal Veneto, si collocano,invece, in una logica palesemente secessionista, di disgregazione dello Stato nei suoi princìpi fondanti. Vengono messi in discussione prima ancora che i diritti sociali e civili comuni fra cittadini e individui di uno stesso Stato, i poteri degli organi centrali dello Stato.
L’art. 4 dell’accordo preliminare del 28 febbraio 2018 firmato dalla Regione Veneto e dal Governo, relativo alla attribuzione delle risorse finanziarie, richiamato dagli articoli 2 e 3 della proposta di legge del Veneto attribuisce alla commissione paritetica Stato-Regione, composta da nove componenti di nomina governativa e da nove di nomina della giunta regionale, “ la predisposizione dei decreti legislativi per l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia sulla base di modalità per l’attribuzione delle risorse finanziarie in termini di fabbisogni standard … aventi come termine di riferimento … il gettito dei tributi maturato nel territorio regionale”. La commissione paritetica esiste nelle Regioni a Statuto speciale, con il compito di proporre le norme di attuazione delle funzioni statutarie, ma il potere di emanare i decreti legislativi appartiene al governo, che può anche non emanarli o ritardarne l’emanazione, come accadde per le norme di attuazione sulle entrate collegate alla riforma del 2006 (norme peraltro non necessarie, come dimostra il fatto che la riforma sulle entrate del 1983 entrò in vigore subito) quando il governo ha emanato il decreto nel 2016, cioè 10 anni dopo!. Nelle proposte di autonomia differenziata è il comitato paritetico che determina, cioè decide l’attribuzione delle risorse, lasciando ad organi costituzionali come il Parlamento e il Governo un ruolo di ratifica di decisioni assunte da organi che possono e devono avere solo una funzione propositiva, non certo decisionale.
Entrando poi nel merito della destinazione delle risorse vengono palesemente violati i principi fondamentali e i diritti e doveri stabiliti dalla nostra Costituzione: art. 3 “ tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”; art. 32,” la salute è diritto di tutti gli individui”, quindi non solo dei cittadini; art.34 “ tutti i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” . La Costituzione non lega i diritti sociali (artt. 29-34) al reddito e alle entrate. Anzi impone la preliminare definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni su tutto il territorio dello Stato (art.117,comma 2, lett.m e art. 120, comma 2). Si affermano princìpi, fatti e obiettivi basati su inesattezze. Quando si fa riferimento ai costi standard, una cosa è basarsi su quanto accade ad esempio in sanità dove la determinazione avviene con riferimento a parametri di efficienza (cioè le Regioni virtuose), altra cosa è introdurre il criterio delle entrate tributarie della Regione. Quando si fa riferimento al residuo fiscale non ci si dovrebbe limitare a calcolare la differenza fra entrate tributarie territoriali e spesa pubblica nello stesso territorio, ma occorrerebbe tener presenti altri elementi quali il prelievo in percentuale rispetto alla ricchezza prodotta in Lombardia,Veneto ed Emilia-Romagna e al Sud (nelle tre Regioni del Nord il prelievo è inferiore di 3 punti rispetto alla percentuale del PIL delle tre Regioni sul totale italiano, al Sud è l’esatto contrario) e l’ammontare percentuale della spesa pubblica calcolato rispetto alla percentuale della popolazione sul totale italiano (al Nord è superiore di 1 punto, mentre al Sud è inferiore di 5 punti percentuali): in entrambi i casi il Sud è svantaggiato rispetto al Nord (rinvio su questi aspetti ai calcoli molto precisi fatti da Giorgio Macciotta). Come pure il rapporto fra diverse aree territoriali non va calcolato solo valutando il rapporto fra entrate fiscali e spesa pubblica, ma nei rapporti commerciali derivanti da un mercato ampio, calcolando per esempio quanto vendono e ricavano le industrie del Nord al Sud.
Il divario fra Nord e Sud non può essere calcolato solo sui risultati reddituali, ma prima ancora valutando il divario enorme nella dotazione infrastrutturale (sanità ospedaliera e territoriale, scuole, trasporti esterni, trasporti stradali e ferroviari interni, energia a basso costo) e nei contenuti di un welfare più funzionale alle aree sviluppate e molto meno alle aree non sviluppate o in via di sviluppo.
Il contenuto di fondo, il retro pensiero di alcune delle proposte di autonomia differenziata non è la crescita, ma la redistribuzione di ciò che abbiamo, un gioco a somma zero, come ha ricordato Gianfranco Viesti nel suo libro “Autonomie regionali e unità nazionale”, con il risultato di dire addio alla solidarietà nazionale. La parola d’ordine è “prima il Nord che produce”, sostanzialmente lo stesso schema contro gli immigrati applicato all’interno dello Stato.
In un mercato sempre più globalizzato e con il peso crescente delle superpotenze economiche (USA 22% del PIL mondiale, Cina il 17%) solo una Unione Europea capace di agire come Unione e non come somma di Stati sovrani, ma isolati e deboli, può pensare di competere (l’UE unita rappresenterebbe oltre il 19% del PIL mondiale).
Allo stesso modo pensare di dividere l’Italia più ricca da quella meno ricca indebolisce il Paese nel suo insieme. Aumentare poteri e responsabilità delle Regioni può e deve contribuire a rafforzare il ruolo dello Stato nello scenario economico e sociale europeo.
L’obiettivo di potenziare il sistema autonomistico sia con le Regioni a Statuto speciale sia con le autonomie differenziate, pur non essendo risolutivo se non si affronta, come ho già sottolineato, la questione del ruolo delle Regioni nelle decisioni degli organi centrali dello Stato, deve, quindi, diventare elemento comune di tutte le autonomie regionali, non elemento di divisione.
Cagliari, 14 ottobre 2019.