Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
Buonasera a tutte e tutti,
voglio esprimere un grazie agli organizzatori per la bella iniziativa a cui oggi stiamo partecipando perché tratta un argomento passato molto nel silenzio e nel disinteresse generale, mentre è un tema importante con risvolti che coinvolgono la vita concreta delle persone, tutte, e come tale merita discussione, approfondimento e partecipazione.
L’attenzione verso l'Autonomia differenziata si è fortemente rafforzata nell’ultimo anno a seguito della richiesta, da parte delle Regioni Lombardia e Veneto, prima ed Emilia Romagna, poi, di maggiori poteri in alcune materie di competenza dello Stato.
Questo fenomeno forse può essere visto, per quanto riguarda Lombardia e Veneto, come l’evoluzione dell’aspirazione alla secessione, appannaggio della Lega Nord negli anni ‘90, con cui questa affermava l’idea di autosufficienza delle regioni del Nord, più vicine e simili alle ricche regioni europee, rispetto ad un Sud d’Italia frenante, assistito e improduttivo.
Nel corso degli anni, dalla improbabile secessione si è passati alla voglia di regionalizzazione, un termine più soft, meno impattante rispetto all'idea di staccare le regioni del Nord dallo Stato italiano ma con cui riprende appeal il concetto, molto radicato, del preteso diritto che le tasse pagate al Nord restino a beneficio dei cittadini del Nord.
E’ un fenomeno che si è rianimato con l’arrivo e il persistere della crisi economico-finanziaria del 2009 che ha colpito tutto il Paese, anche le sviluppate aree del Nord: il Veneto, per esempio, ha avuto importanti conseguenze nelle tante piccole e medie imprese del suo tessuto economico produttivo.
Alla crisi, che si ha difficoltà a contrastare anche nelle realtà italiane più ricche, si reagisce con un atteggiamento di chiusura nell’intento di mantenere maggiori risorse all'interno di questi territori: le tasse pagate localmente sono tante e di diritto si pensa debbano essere riutilizzate nel territorio perché si sa fare meglio dello Stato centrale. E così, anche se con sfumature diverse, queste esigenze emergono in altre Regioni, l’Emilia Romagna appunto, ma tante altre cominciano a fare riflessioni nella stessa direzione.
E’ importante affermare che l'Autonomia differenziata è un principio previsto nella nostra Costituzione che, con la riforma del Titolo V del 2001, ha garantito maggiore autonomia agli enti decentrati riconoscendo fortemente il principio di sussidiarietà.
Questo principio deve trovare attuazione però dentro regole precise, con la valutazione di compatibilità con gli altri principi costituzionali, perché la nostra Carta vive e realizza il suo modello di Stato attraverso i diritti fondamentali che questa afferma, integrati e interconnessi tra loro, un tutt’uno.
L'Autonomia differenziata, che si realizza attraverso la cessione di competenze dello Stato alle Regioni secondo il principio che queste siano maggiormente efficienti ed adeguate dello Stato per farvi fronte, oltre a dover garantire i diritti costituzionalmente previsti, necessita di verifica della sostenibilità finanziaria di questo processo e dell’impatto economico che il passaggio di funzioni ha nell’organizzazione attuale dello Stato: quali costi e benefici comporta, quale sostenibilità ha nell’azione di governo del Paese.
Fondamentale è quindi disciplinare i principi generali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario per l’attribuzione delle risorse ai diversi livelli istituzionali in funzione delle competenze attribuite a ciascuno e attuare il federalismo fiscale previsto dalla Carta costituzionale. La legge n.42 del 2009, come è già stato detto negli interventi precedenti, ha questa finalità, ma è da constatare che ad oggi mancano parti attuative fondamentali di questa norma per un compiuto federalismo regionale che garantisca universalmente diritti e servizi ai cittadini.
Senz’altro su questi ritardi ha influito negativamente l’imperversare della crisi economico-finanziaria, che tanto ha inciso sulla spesa pubblica in questi anni vincolando il bilancio dello Stato e degli Enti locali, ma non è più rimandabile la definizione di criteri, parametri e regole per un corretto funzionamento dei servizi essenziali nel nostro Paese a tutti i livelli.
In primis è necessario superare il modello del finanziamento del sistema utilizzando il parametro della spesa storica, che reitera sostegno e premialità per le Regioni che hanno realizzato negli anni una buona rete di servizi e penalizza quelle Regioni in condizioni di ritardo, con servizi in degrado, aumentando divari e disuguaglianze. Così infatti non si ha la possibilità di incidere per il superamento degli ostacoli organizzativi e di efficientamento e non si garantisce pari opportunità e universalità.
Serve passare al sistema di attribuzione delle risorse basato sull’individuazione dei fabbisogni standard necessari a garantire il finanziamento integrale dei livelli essenziali delle prestazioni che lo Stato ancora oggi non ha definito ma che sono indicatori essenziali per le prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e le funzioni fondamentali assegnate agli enti locali.
Così come va garantito il principio per l’assegnazione di risorse perequative agli Enti con meno capacità di autofinanziamento.
Certo il tema delle entrate è molto dibattuto: queste sono indispensabili proprio per garantire il funzionamento dello Stato e dei servizi ai cittadini, e il sistema fiscale ha necessità di essere riformato e reso più equo. Tanto si potrebbe dire poi del fenomeno dell’evasione fiscale che è molto diffuso nel nostro Paese e che, se adeguatamente contrastato, determinerebbe maggiori entrate, quindi servizi più diffusi e di qualità, e forse una più equa progressività della tassazione.
Imprescindibile è garantire il principio di pari dignità sociale e di eguaglianza previsto nell'articolo 3 della nostra Costituzione, secondo il quale lo Stato si deve organizzare per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il compiersi della piena realizzazione del cittadino/lavoratore.
Ecco perché è in capo allo Stato la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, i LEP, che devono individuare parametri e indicatori per il funzionamento dei servizi, strumento attraverso il quale i principi dell’art. 3 della Carta possono concretarsi, garantendo pari condizioni nel diritto di accesso, per qualità e costi dei servizi a prescindere dal luogo nel quale ogni individuo vive.
Quando parliamo di salute, di istruzione e formazione, di mobilità, di connessione, di lavoro, di inclusione, di ambiente, stiamo declinando gli ambiti in cui si deve realizzare l’universalità dei diritti fondamentali sanciti nella nostra Costituzione.
In alcuni di questi sono stati definiti degli indicatori. Pensiamo ai Livelli Essenziali di Assistenza in sanità, anche se ancora mancano i parametri rispetto agli standard organizzativi che ne stanno alla base, per la qualità dei servizi erogati: constatiamo ogni giorno quali disservizi comporta la carenza di personale negli ospedali, nei servizi territoriali, la mancanza di medici, di pediatri, la disomogeneità nella qualità e nell’accesso ai servizi nelle aree interne rispetto alle città, la differenza tra Regioni del Nord e del Mezzogiorno d’Italia, Isole incluse.
In altri settori i LEP sono totalmente assenti o imprigionati dentro parametri avulsi rispetto ai diversi contesti territoriali del nostro Paese, perché il dominus è il contenimento della spesa pubblica a cui tutto è sacrificato.
Così per quanto riguarda gli asili nido, i servizi educativi per l’infanzia, quelli per i disabili e la non autosufficienza, le risorse e i servizi per le persone emarginate e povere, quelli per garantire il diritto allo studio, così come per il diritto al lavoro e alla formazione o il diritto alla mobilità, è indispensabile costruire regole e destinare risorse per garantire presidi e sistemi nei quali questi diritti possano esprimersi in qualunque Comune o Regione.
Se ci soffermiamo sulla non autosufficienza, un tema prioritario nel nostro contesto sociale visto l’allungamento dell’aspettativa di vita delle persone e l’invecchiamento della popolazione, la mancanza di una legge che definisca livelli essenziali delle prestazioni esigibili lascia le persone fragili coinvolte in condizioni di forti disparità territoriali. E’ questa una rivendicazione che il sindacato sostiene anche con una proposta di legge popolare depositata in Parlamento da anni, ma mai esaminata.
Allo stesso modo, se pensiamo al sistema dei servizi educativi per la prima infanzia, i divari territoriali sono enormi: in alcune regioni gli asili nido pubblici sono diffusi e di qualità, eccellenze mondiali, in altre quasi inesistenti, costosi e comunque ben lontani dai parametri minimi definiti anche a livello europeo. L’inserimento precoce dei bambini nei servizi educativi è ormai considerato la base per favorire lo sviluppo educativo e formativo del bambino. Avere i LEP per questi servizi è strategico socialmente e per le future generazioni, ancor più se consideriamo il bisogno esistente in quegli strati sociali più disagiati dove servizi educativi professionali e di qualità sono fondamentali per dare opportunità di crescita e di emancipazione sociale agli individui.
Analogamente, è fondamentale garantire in modo universale una rete di protezione sociale e di inclusione per le persone e le famiglie disagiate, un sistema strutturato di aiuto per superare difficoltà, bisogni non solamente occupazionali che emergono sempre più nelle aree di crisi del Paese, nelle periferie urbane, quelle che hanno più difficoltà ad invertire condizioni socio-economiche precarie da decenni. Un primo passo si era fatto con il Reddito di inclusione, ma con risorse non sufficienti, misura ora rivista con il Reddito di Cittadinanza ma finalizzata principalmente all’inserimento lavorativo.
I livelli essenziali delle prestazioni sono strategici anche quando parliamo di lavoro perché è importante garantire servizi che siano uniformi e diffusi nel territorio, capaci di accogliere e supportare disoccupati, lavoratori e imprese nelle complesse dinamiche del mercato del lavoro moderno.
La riforma dei centri per l'impiego ha avviato questo processo ma sono ancora insufficienti le misure per politiche passive e attive che favoriscano l'occupazione, la formazione dei lavoratori e l'inserimento lavorativo, servizi fondamentali per garantire il diritto al lavoro delle persone, in particolare delle fasce più deboli nel mercato del lavoro: disabili, donne, giovani e ultracinquantenni.
E’ interessante fare un approfondimento sul diritto allo studio e su come lo Stato dovrebbe organizzarsi con Istituti scolastici di prossimità, dando la possibilità di avere il tempo pieno e il tempo prolungato nelle nostre scuole e garantendo un'offerta formativa di qualità, diversificata e integrata.
La scuola pubblica in Italia invece è stata investita per decenni da ripetute riforme che ne hanno modificato l’impianto, a lungo incompiute e non adeguatamente finanziate. La rete scolastica viene organizzata secondo parametri definiti a livello ministeriale che dimensionano autonomie scolastiche e classi di istruzione nella scuola primaria, nella secondaria di primo e di secondo grado dentro un rigido contenimento della spesa pubblica.
L’organizzazione secondo parametri rigidi di dimensionamento e di spesa non tiene conto di peculiarità geografiche, demografiche e socio-economiche di territori quali la Sardegna, ad esempio, non affronta e quindi non riesce ad invertire fenomeni gravi di dispersione scolastica, l’estendersi della povertà educativa, l’abbassamento del livello culturale e di competenze in genere che pervade le aree più depresse del Paese, un vulnus vero e proprio alla democrazia.
Anche l’istruzione universitaria sconta un sistema di finanziamento che non tiene conto delle differenze tra territori, degli svantaggi, e non interviene a sostegno e supporto degli atenei più periferici, per garantire la prima formazione di qualità e per evitare eccessive migrazioni studentesche.
Parametri e criteri di cui tenere conto per garantire a tutti l’accesso a un sistema di qualità dell’istruzione primaria, secondaria e terziaria risiede principalmente nella possibilità di avere personale stabile qualificato, selezionato e giustamente pagato, un adeguato organico funzionale, docente e ATA, per garantire prestazioni di servizio ad alunni e cittadini.
Anche il sistema integrato per l'apprendimento durante tutto il corso della vita è fondamentale, in quanto serve per emancipare l'individuo e renderlo partecipe nella vita sociale, civile e culturale; è quindi un diritto imprescindibile che lo Stato deve garantire, il diritto allo studio che permetta la frequenza gratuita a tutti, per tutto l'obbligo scolastico, e per tutti la possibilità di arrivare ai più alti livelli formativi.
È importante che vi siano risorse appropriate per la disabilità, per la dispersione scolastica, per garantire servizi anche in contesti di forte spopolamento, realtà in degrado socio-economico; quindi non parametri uguali per tutti a prescindere dalla valutazione di questi aspetti, ma bensì la possibilità di potenziare il sistema perché, laddove esistono queste condizioni, il diritto all'istruzione e all'educazione non venga fortemente pregiudicato.
Come si può vedere gli aspetti che il tema dell’Autonomia differenziata tocca sono tanti, importanti, e riguardano ampiamente la vita di ciascuno di noi, la sua qualità e le opportunità per il futuro.
Se poi valutiamo il nostro contesto locale, la Sardegna, la Regione ha riconosciuta l’Autonomia speciale per la condizione di territorio svantaggiato, ma sono tanti i principi sanciti nello Statuto Sardo ancora oggi inattuati. La complessità di un “territorio ultra-periferico” come il nostro che ha nell’insularità la sua caratteristica principale, ha tanti ritardi da superare e tante variabili: ha bisogno di norme europee, nazionali e regionali di tutela, di capacità politico-istituzionale per i diversi livelli di governo, di un contesto socio-economico intraprendente e competente, di risorse adeguate per superare le condizioni di sottosviluppo che ancora attanagliano la nostra Isola.
Quale Italia emergerebbe dall’attuazione dell’Autonomia differenziata alla luce delle riflessioni fatte e delle condizioni in essere nelle nostre Regioni? E’ un Paese che si sostiene quello che non affronta i divari, le differenze territoriali, le disuguaglianze diffuse?
Per noi è necessario e indispensabile, invece, dare piena attuazione alla Costituzione partendo proprio dal ruolo che lo Stato deve assumere per realizzare l’art.3. della Carta fondamentale.
Compete allo Stato essere garante, regolatore e controllore dell’attuazione dei principi costituzionali in tutti i territori, per eliminare le differenze oggi esistenti e non creare ulteriori sperequazioni e discriminazioni; uno Stato che garantisca l’universalità dei diritti, agisca per la riduzione delle disuguaglianze e realizzi infrastrutture materiali e immateriali per riequilibrare i diversi contesti territoriali, investendo sulle persone che sono il capitale umano indispensabile per lo sviluppo e il futuro.
A questo obiettivo devono essere finalizzate le tasse che i contribuenti pagano secondo criteri di progressività ed equità, e indirizzate quelle recuperate dai tanti che ancora oggi evadono; così come le risorse stanziate con i Fondi europei, da programmare e spendere per il riequilibrio e la crescita del Paese.
Questa è la nostra idea di Stato democratico, sostenibile e solidale, un Paese che ha una visione d’insieme e che crede ancora nei principi fondanti della nostra Costituzione.
Grazie a tutti per l’attenzione
Cagliari, 14 ottobre 2019.