Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
Per una Autonomia Responsabile e Democratica - Gian Mario Demuro
Nei sistemi federali si condivide l’idea che la democrazia si attua in ogni livello di governo e, pertanto, che essi siano fondati sul rispetto delle libertà individuali e sulla garanzia delle minoranze. Anche nelle democrazie regionali si afferma la medesima concezione della democrazia, ossia l’autonomia di ogni individuo può coincidere con l’autogoverno delle comunità regionali che compongono la Repubblica. Come possiamo riportare la nostra autonomia regionale a rifondarsi sulla partecipazione democratica e definire il proprio destino politico nell’ Unità della Repubblica è la domanda alla quale intendo proporre alcune risposte.
La prima risposta attiene alla relazione tra crisi economica e qualità della democrazia regionale.
Dalla crisi economica si può certamente uscire aumentando la qualità delle istituzioni. Tuttavia, ancor prima di cambiare lo Statuto speciale, in Sardegna deve cambiare la proposta politica aumentando la propensione della sinistra a occuparsi di questioni territoriali senza limitarsi a rivendicare più risorse dallo Stato. Dalla crisi economica si può uscire, infatti, a condizione che si recuperi per intero l’idea che l’autonomia speciale deveessere utilizzata per sostenere lo sviluppo economico. Ciò appare ancor più necessario in momenti di drammatica crisi economica, poiché buona parte delle scelte di salvataggio della finanza pubblica sono state “spostate” al Centro con evidente sofferenza dell’autonomia regionale.
Ma in contesti recessivi o di scarsa crescita le autonomie devono reagire aumentando i livelli di responsivness (verificabilità) dell’azione pubblica nella democrazia regionale. La retorica della riforma perenne diventa, purtroppo, mera propaganda, utile a nascondere le reali responsabilità delle maggioranze al governo e utile a porre il tema dell’autonomia sempre come strumento di spreco, abuso, privilegio.
In questa prospettiva la prima riforma da fare è in materia d’informazione sull’ autonomia in modo che possa crescere un’opinione pubblica consapevole della centralità della democrazia regionale; unica reale possibilità perché la democrazia possa aumentare anche nella percezione di chi ha il compito di promuoverla. Nella difficoltà per la politica di regolare l’economia la tentazione che emerge è infatti, spesso, quella di considerare l’autonomia regionale un “lusso” non più sostenibile e ciò deve essere contrastato con efficacia.
La seconda riforma culturale da fare è rafforzare la nostra specialità di fronte a tutti coloro che la negano. Lo stato in cui versa la specialità oggi mette seriamente in crisi le giustificazioni storiche, economiche e linguistiche che hanno reso costituzionalmente accettabile la specialità in passato.
A quasi vent’ anni di distanza dalla riforma del Titolo V della Costituzione si assiste, infatti, a una sistematica assenza delle Regioni speciali nell’adempiere al dovere di dare significato alla loro specialità intesa come differenza.
A ciò si aggiunga che il meccanismo dell’adeguamento automatico alla maggiore autonomia concessa alle Regioni a Statuto ordinario (art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001) ha funzionato in modo intermittente, aumentando in maniera esponenziale la separatezza delle Regioni speciali all’interno di un sistema di autonomie privo di qualunque certezza.
L’incertezza è talmente diffusa che porta a domandarsi se non sia, in realtà, voluta dalle Regioni speciali per mantenere quello che da alcuni è considerato un privilegio finanziario.
La terza riforma da fare è superare lo stallo della mancata approvazione della legge statutaria e della legge di riforma dell’organizzazione amministrativa in Sardegna. In assenza d’approvazione di un nuovo Statuto occorre darsi una forma organizzativa costruita sulla propria specialità evitando di oscillare tra l’approvazione di singole leggi statutarie in materia elettorale e l’abbandono di leggi statutarie che, anche se per un breve periodo, sono state in vigore.
Manca insomma ancora una prospettiva di valorizzazione dell’autonomia della Sardegna collegata all’ approvazione di una legge statutaria. Tale strumento avrebbe dovuto porre la nostra Regione nelle condizioni di realizzare in concreto la riforma della forma di governo e, di conseguenza, le ragioni speciali della differenziazione.
Il rafforzamento della democrazia regionale passa anche dalla ripresa della discussione sul federalismo fiscale riprendendo le antiche ragioni della formula: “niente tasse senza rappresentanza”. Per rispondere a questa esigenza occorre integrare il metodo giuridico con le altre scienze, soprattutto statistiche ed economiche. Naturalmente senza rinunciare al ruolo di giuristi ma con la consapevolezza che il tema dell’autonomia regionale oggi è, soprattutto, la risultante dello studio di meccanismi istituzionali preordinati a garantire strumenti di competizione tra livelli di governo. Uno studio che ho coordinato in collaborazione con l’Università di Edimburgo sul rapporto tra specialità e differenziazione
in Sardegna e Scozia, ha verificato che la maggior parte dei sardi è favorevole a conferire maggiori poteri in materia fiscale al Consiglio regionale.
Il risultato è interessante perché ammette che la pressione fiscale può aumentare a condizione che sia chiara la finalità del prelievo. In sintesi, siamo disposti ad accettare anche “tasse regionali” se si ha contezza, ad esempio, che le somme siano destinate alla tutela ambientale. Sono convinto che una maggiore autonomia in materia fiscale possa aumentare i livelli di responsabilità dei governanti. Basterebbe lavorare sulla letteratura prodotta dai padri costituenti, ad esempio da Lussu e Laconi.
I lavori in Assemblea costituente dimostrano come l’autonomia speciale è costruita come una autonomia responsabile delle scelte politiche.
Infine, come sosteneva Emilio Lussu, dobbiamo tenere insieme la nostra autonomia con l’unità nazionale evitando di «sacrificare ad essa tutto: repubblica, democrazia, federalismo, la stessa libertà» (Federalismo, 1933). E dobbiamo anche evitare di continuare a concepire la nostra autonomia come mera distribuzione di uffici e funzioni amministrative territoriali. Come scriveva Lussu: «l’autonomia concepita come decentramento non è più autonomia.
Gli autonomisti della Sardegna, della Sicilia e del Mezzogiorno in genere si chiamavano autonomisti perché per autonomia intendevano dire federazione, non già decentramento. Ma pure vi sono ancora non pochi che, credendo di aderire alla loro impostazione, parlano di larghe autonomie provinciali o comunali, il che è tutt’ altro affare. D’ora innanzi, adoperando la terminologia “federalismo” non vi saranno più equivoci. Tutte le vecchie concezioni “autonomistiche” espresse dal ’59 in poi in Italia, significano decentramento e non altro. Anche Cavour parlava di autonomie regionali e certamente, se fosse vissuto ancora qualche anno, avrebbe organizzato lo Stato su basi regionali e non provinciali, ma la sua concezione non era discorde da quella di Farini e di Minghetti, alla quale anzi si ispirava (Federalismo, 1933)”.
L’autonomia non è dunque, per noi, decentramento ma strumento per la partecipazione alla costruzione democratica della Repubblica e alla autodeterminazione della comunità
regionale.
Ghilarza 28 aprile 2018