Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
Una nuova Carta Autonomistica e Federalista della Sardegna - Michele Carrus
Il titolo del dibattito odierno, Una nuova carta autonomistica e federalista della Sardegna, sembra offrire una risposta a una questione importante, tornata d’attualità non soltanto nella giornata di oggi, in cui ricorre Sa die de sa Sardigna, ma perché il referendum sulla riforma costituzionale su cui abbiamo votato circa un anno e mezzo fa ha restituito all’ordinamento e al funzionamento delle istituzioni democratiche una centralità che normalmente non hanno nel dibattito pubblico; e poi perché da qualche mese è in corso nell’isola, e adesso anche fuori, una campagna politica finalizzata al riconoscimento nella Costituzione italiana della condizione di insularità quale fondamento per l’adozione misure particolari di governo volte ad alleggerirne gli effetti negativi a carico delle comunità interessate.
Pero’ questo titolo, a mio giudizio, pone piuttosto una domanda, a ben vedere, e lancia una sfida: a cosa ci serve? E come dev’essere fatta una nuova carta autonomistica per la Sardegna? Emilio Lussu, facendo riferimento allo scarso risultato ottenuto in rapporto alle forti aspettative “nazionali” dei sardi, aveva paragonato lo Statuto d’autonomia per la Sardegna ad un gattino davanti ad un leone, mentre si rammaricava di doverlo votare così com’era nella fase terminale del lavoro dell’Assemblea Costituente, il 31 gennaio del 1948. Egli con questa sua battuta alludeva alla limitatezza dei poteri e delle attribuzioni che lo Statuto riservava alla Regione Autonoma della Sardegna in un quadro di un ordinamento non federalista dello Stato; ma tale limitatezza egli la valutava anche in termini comparativi rispetto allo Statuto autonomo della Sicilia, che era stato approvato con decreto luogotenenziale già due anni prima e che, in una certa fase dei lavori della Consulta regionale per lo Statuto sardo, Lussu aveva proposto che venisse adottato anche per la nostra isola, proprio per il timore che da quei lavori derivasse un ordinamento regionale per la Sardegna molto depotenziato rispetto a quello dell’isola gemella. Naturalmente la proposta suscitò il rifiuto sdegnato dei Consultori sardi, che si accinsero a scrivere un testo, e anche più d’uno, dal quale poi è scaturito il risultato che noi tutti conosciamo.
Il regionalismo istituzionale italiano, invece, la redistribuzione di parte delle funzioni pubbliche e dell’esercizio dell’attività amministrativa in prossimità al cittadino e al territorio previsti dall’art. 5 della nostra Costituzione repubblicana – la quale promuove l’autonomia e la legislazione ispirata ai principi del decentramento secondo i criteri della sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza sanciti nel seguente art. 118 Cost. – tardò più di vent’anni a trovare un concreto suo riferimento applicativo con la creazione delle regioni ordinarie nel nostro Paese.
Ma fino ad allora era prevalsa una certa visione centralistica delle funzioni pubbliche di governo e dello stesso ordinamento.
Quanto alla Sardegna, essa fece un pessimo uso della propria autonomia, pur così limitata come sosteneva Lussu: è giudizio ricorrente che questa autonomia abbia finito per diventare per i sardi piuttosto un peso, che non un’opportunità.
Ma va detto che ciò è accaduto essenzialmente per responsabilità delle nostre classi dirigenti le quali, salvo particolari momenti della nostra storia, si sono mostrate spesso più propense ad una visione subalterna alla politica nazionale che non al protagonismo nell’azione di autogoverno: forse è il segno di un antico retaggio dei tempi nei quali la nobiltà e la borghesia urbana sarde andavano reclamando dai sovrani spagnoli incarichi e privilegi particolari di natura fiscale, oppure vantaggi per il proprio casato, dietro i quali barattavano l’esercizio dei poteri di autogoverno delle antiche istituzioni della Sardegna.
È per questo che si esaurì presto quella magnifica spinta propulsiva legata alla stagione ideativa della prima Rinascita, che prese corpo proprio per iniziativa della Cgil, delle tre sue Camere del Lavoro di Nuoro, Sassari e Cagliari, che finì piegata nell’adozione di un modello di sviluppo industriale rivelatosi in seguito “antropologicamente catastrofico”. Ma qui occorre dire con assoluta chiarezza che l’industria, e lo sviluppo dei settori produttivi, resti oggi come allora assolutamente fondamentale per la crescita economica e sociale della Sardegna, soprattutto per la riduzione del suo grado elevato di dipendenza da fonti esterne per i propri approvvigionamenti essenziali di prodotti e beni di consumo.
Per questo ha finito per placarsi anche quel risveglio del “vento sardista” degli anni ‘80 nella fatica incredibile che facemmo a “tradurre in sardo” i processi di riforma legislativa istituzionale che avvennero nel nostro Paese dalla seconda metà degli anni ’90 in avanti, dalle iniziative del ministro Cassese alle leggi Bassanini, che si spinsero fino a cambiare il Titolo V della nostra Costituzione, ponendoci lo Stato una sfida di rinnovamento istituzionale che noi non sapemmo raccogliere. E sprecammo allora, sostanzialmente, anche la stagione propositiva della Programmazione Negoziata delle politiche di sviluppo, della quale fummo buoni precursori attraverso i PIA, i piani integrati d’area inventati dal prof. Antonio Sassu quando era assessore della prima Giunta Palomba, per diventarne stanchi epigoni con i Progetti Integrati Territoriali di derivazione comunitaria e, più recentemente, con i Progetti di Filiera e di Sviluppo Locale.
Lo stesso “risveglio autonomistico” della seconda metà del primo decennio del 2000, che produsse atti fondamentali di pianificazione generale (come il Piano Paesistico, il Piano Energetico e quello Ambientale, il Piano Sanitario, che sono atti tuttora validi e quasi tutti vigenti) e che ci valse un nuovo e più vantaggioso rapporto tributario con lo Stato, attraverso l’esercizio pieno di competenze in materia di sanità e di trasporti, ecco, questo risveglio autonomistico si è ben presto esaurito nella pratica delle referenzialità particolari delle Giunte con i Governi “amici”, che hanno ridotto la portata dei cambiamenti e delle nostre rivendicazioni.
È forse per compensare questa nostra manchevolezza che ha preso piede l’idea di riproporre il tema delle franchigie fiscali, in varia forma e natura, quale misura indispensabile per il nostro sviluppo autonomo (quantunque mi sia ben chiaro che l’istituzione di punti franchi in Sardegna era stata effettivamente prevista anchenello stesso nostro Statuto del ’48): e così ha preso via un florilegio di proposte di zone franche per tutti gusti, generali, fiscali, doganali, alla produzione, urbane, integrali e… senza glutine! E ora via con le ZES, le Zone Economiche Speciali, ché comunque una non la si deve negare a nessuno! Dietro quest’idea si coltiva l’illusione di un “Paese del bengodi” fiscale per i consumatori, inducendo il disoccupato a credere di poter continuare a trascorrere inutilmente il tempo appoggiato al bancone del bar del paese pagando, però, la birretta a metà prezzo, oppure si tende a legittimare la pessima aspirazione all’impunità degli evasori seriali; ma non si considera mai l’umiliazione di dover chiedere agli altri di pagare al posto nostro il conto di tanta arguzia programmatica! Qualcuno potrà forse consolarsi di porgere innanzi un cappello per l’elemosina orgogliosamente ricamato con l’effigie dei quattro mori, ma sempre d’invocare un soccorso esterno si tratta!
Occorre dire la verità alle persone, e la verità è che la Sardegna, oggi, pur beneficiando di una compartecipazione al gettito erariale superiore alle regioni ordinarie (abbiamo, ad esempio, il 90% dell’Iva e il 70% dell’Irpef, anziché il 20%), ha entrate pubbliche allargate pari a circa il 52% del suo PIL, cioè della ricchezza che produce in un anno, mentre ha una spesa pubblica allargata pari a circa il doppio, circa il 103% del PIL: ammesso e non concesso un sistema fondato su sconti fiscali diffusi, che riducono il gettito con cui si finanziano i servizi ai cittadini, come si copre questa differenza? Quali strade dovremo chiudere? Quali scuole e ospedali tagliare, e quanta assistenza sociale, borse di studio, opere pubbliche, manutenzioni territoriali, beni culturali, spettacoli, sagre, ecc.?
Serve serietà, diciamolo una volta per tutte, serve concentrarsi sulla progettualità intorno ad obiettivi meritevoli, condivisi e perseguibili. Qui sta il concetto fondamentale a me caro della autonomia, che mi piace declinare con i suffissi dell’esercizio di una maggiore responsabilità rispetto alle scelte da compiere e ai modi per attuarle, piuttosto che sognare soluzioni salvifiche dal cielo.
Dunque, non si tratta di valutare l’idea autonomistica dentro soltanto all’idea di “nazione sarda senza Stato”, cioè di valutarla da un punto di vista storico-culturale piuttosto che etnico-naturalistico, benché io non abbia alcun dubbio rispetto al fatto che la nostra condizione di isolamento abbia configurato per i sardi dei caratteri identitari molto forti, marcati e distintivi, che meritano di per se stessi un riconoscimento specifico: ed in questo senso mi pare opportuno colmare una lacuna del tutto evidente al primo sguardo che si rivolga al nostro Statuto, e cioè la totale assenza di qualsiasi riferimento alla tutela dei giacimenti culturali e della lingua sarda, nelle sue varianti, da diffondere per la comunicazione e utilizzare anche come strumento veicolare dell’attività amministrativa.
Si tratta di assumere semmai l’elemento della nostra insularità quale presupposto non di una volontà di separatezza dalla comunità più vasta italiana ed europea della quale siamo parte, bensì di una nostra maggiore integrazione “caratterizzata”, nella quale quindi trovino casa legittima i nostri tratti identitari specifici; quale presupposto, cioè, per l’adozione di adeguate politiche di sviluppo economico e di crescita morale e materiale della nostra gente: è soltanto inserendosi in un sistema integrato più ampio e capace di competere nell’attuale mondo globalizzato, dandovi un apporto costruttivo, che i sistemi locali più deboli e periferici, come il nostro,possono vivere ed evolvere, piuttosto che restare relegati in un angolo buio della storia. Ed allora possiamo provare a porci dei macro-obiettivi, delineare tre macro-aree d’intervento riformatore che mi pare di poter suggerire.
1. Innanzitutto c’è il tema della esigibilità, oggi, dell’art. 13 del nostro Statuto, alla luce del novellato articolo 119 della Costituzione e della normativa sulfederalismo fiscale, la L. 42/09.In chiave moderna un piano di rinascita significa coordinare tutte le risorse disponibili dalle diverse fonti, Europa, Stato, Regione, Enti Locali e privati verso una visione progettuale di ampia prospettiva, e non di corto raggio. Significa darsi dei traguardi che sappiano sottrarsi alle inevitabili manipolazioni dei governanti di turno, che non dovrebbero giungere fino a cancellarli del tutto, sprecando tutti gli sforzi fatti fin lì. È per questo fine che ritengo corretto reclamare anche una dotazione di risorse aggiuntive dall’amministrazione centrale, sia in termini risarcitori per il contributo spesso impari che la Sardegna ha dato, storicamente, alla causa nazionale italiana – basti pensare ai tanti caduti sardi nella Grande Guerra – e anche per la sottrazione di ricchezza all’isola dovuta all’esosità del fisco sabaudo,in altri tempi, o alla rapina delle risorse naturali, dai boschi alle miniere e alle campagne, che i sardi hanno visto perpetrarsi sulla propria terra; ma soprattutto per restituire ad essa, come pure alle altre regioni del Mezzogiorno, quel volume di risorse aggiuntive che derivano dal Quadro Comunitario di Sostegno – oggi Piano Finanziario Pluriennale dell’Unione Europea – che sono state invece utilizzate, per due decenni almeno, in modo sostitutivo dei trasferimenti ordinari dello Stato, cioè non allo scopo di favorire la possibilità di riscatto e di crescita più che proporzionale che serve a chi deve recuperare un ritardo di sviluppo, bensì per finanziare al Sud le normali funzioni pubbliche di governo e d’amministrazione. In pratica, ci va restituito il maltolto, con un’assegnazione di risorse aggiuntive rispetto a quelle spettanti, in modo duraturo, per esempio almeno per un decennio.
Solo che occorre affermare con nettezza la necessità della condivisione delle scelte fondamentali, del coinvolgimento di tutte le espressioni politiche e sociali intorno all’individuazione di obiettivi specifici di sviluppo e di crescita, perché è così che si sostanzia, ad esempio, una politica industriale efficace, come avviene nei paesi più avanzati. Bisogna stabilire il principio della partecipazione popolare, ma rendendola autentica, com’è quella che si esprime seriamente attraverso i corpi sociali intermedi; non quella finta, pensata per poter surrogare il confronto con questi soggetti attraverso l’invenzione di un questionario guidato su di una piattaforma digitale, in cui chiunque, con un click, può esprimere apprezzamento o rifiuto di un’idea che altri hanno predisposto; e neppure con le finte adunanze pubbliche occasionali alle quali tutti prendono parte allo stesso modo, anche se passavano da lì per caso, che somigliano a quella notte in cui tutte le vacche sono nere! Questi, invero, sono i modi per negare la partecipazione, e per riservare le scelte ai soli “ambienti che contano”, quelli ristretti alle lobbies e frequentati da tecnici veri o presunti.
Occorre in altre parole fissare il criterio della governance multi-livello delle politiche di sviluppo, perché non c’è altro modo per garantire un quadro di riferimento certo e stabile nel quale possono collocarsi proficuamente investimenti, soprattutto quelli che hanno bisogno di tempo per realizzarsi e produrre i loro effetti: se si decidesse, ad esempio, per via amministrativa che in una grande città, a Cagliari, non transitino più mezzi pesanti non alimentati elettricamente, occorrerebbe mettere intorno allo stesso tavolo le università e gli enti di ricerca, le società dei trasporti urbani e interurbani, le associazioni degli autrasportatori, il fabbricante dei mezzi pesanti che dovrà riconvertire la sua produzione di motori a scoppio, le banche che devono dar credito a chi produce e a chi acquista i nuovi mezzi, il governo che incentiva quest’innovazione industriale per la sostenibilità ambientale, i sindacati dei lavoratori e le associazioni datoriali, che dovranno gestire una diversa organizzazione del lavoro e le difficoltà della transizione, le agenzie formative che dovranno riqualificare le maestranze e preparare gli addetti ai nuovi servizi e processi, le agenzie governative che sostengono l’occupazione e accompagnano la creazione di nuove attività nella filiera; insomma, una pluralità di soggetti chiamati a condividere una scelta in cui ciascuno deve svolgere la propria parte, per poter dare ad essa il successo che merita nel tempo più giusto nella quale va a realizzarsi. In questo senso non solo bisogna rivedere profondamente il metodo di governo, ma realizzare proprio una riforma della Regione attraverso il massimo grado di federalismo interno che si può mettere in campo, secondo quegli stessi principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza prescritti dalla Costituzione, e demandare ai livelli di massima prossimità al cittadino e al territorio tutte le attività amministrative rivolte all’utenza e quelle di gestione dei servizi, riorganizzandoli in ambiti ottimali quanto al loro dimensionamento, in particolare nelle realtà che esprimono una cosiddetta “domanda debole”; mentre vanno conservate in ambito regionale le attività di programmazione e di pianificazione, secondo, appunto, logiche partecipative. Qui si pone però anche il tema del riordino delle competenze in area vasta sub- regionale, tema di assoluta attualità visto quanto successo dalla abolizione delle province fino al referendum costituzionale, perché vi sono scelte che
appartengono a una dimensione locale appropriata che non si può comprimere su un livello municipale, per esempio per quanto riguarda i sistemi a rete o la stessa
pianificazione del territorio. Ma ad imporre il tema è la stessa necessità di mediazione nel rapporto tra le piccole comunità locali, deboli e frammentate, e la Regione, che devono potersi confrontare come conviene, cioè attraverso una dimensione aggregativa utile alla migliore ripartizione delle risorse e delle competenze, altrimenti il rischio della prevaricazione del decisore più potente è sempre dietro l’angolo.
E’ un riordino che occorre fare con urgenza, perché la legge regionale che è stata approvata in questa legislatura è semplicemente un aborto mal concepito, soprattutto dopo il referendum del 4 dicembre 2016 che ha bocciato l’istanza soppressiva delle province che era contenuta nella riforma costituzionale: bisogna dunque ristabilire quali sono le funzioni proprie della Regione e quali sono delegate ai diversi livelli di governo, ricollocando di conseguenza risorse certe, umane e finanziarie, perché siano svolte bene da tutti i livelli: per esempio, la gestione dell’acqua, della risorsa multifattoriale piuttosto che del servizio idrico integrato, è bene che resti in capo alla Regione? I trasporti, i rifiuti, le vie principali di comunicazione interna necessitano di piani di gestione e di programmazione unitari di livello regionale o possono essere decentrati?
Può cambiare la legislazione a seconda delle risposte che si danno queste domande: per esempio, l’attuale disegno di legge urbanistica, che adesso è in fase di discussione pubblica, non tiene conto affatto, tranne che per la Città metropolitana, che esiste un piano territoriale di coordinamento di competenza dell’autorità istituzionale di area vasta che è la sede nella quale possono collocarsi scelte condivise funzionali alla maggiore integrazione e specializzazione produttiva dei sistemi locali, realizzando in modo sostenibile
anche la possibile compensazione di carichi urbanistici, cioè delle opere edilizie per le diverse tipologie, atteso che esistono forti squilibri nelle dotazioni di servizi
tra un’area territoriale e l’altra interne alla nostra regione.
2.
Questo ragionamento ci apre la strada a una riflessione intorno al secondo macro-obiettivo o area di intervento per la revisione del nostro regime autonomistico: a noi serve un’amministrazione efficiente ed efficace, che non si limiti a guardare che cosa le succede intorno per ingegnarsi ad appesantire la corsa degli eventi e l’attività delle persone e delle imprese con scartoffie inutili e con timbri buoni soltanto a legittimare l’esistenza in vita di chi ce li mette, oppure buoni a stimolare la stessa opacità dell’amministrazione e la sua pericolosa permeabilità alla pressione degli interessi particolari. Non ce ne facciamo nulla di un catafalco di procedure savojarde – non borboniche, come usa dirsi a torto – del tutto inidoneo ad accompagnare a buon fine le più sane aspirazioni progettuali, magari coerenti con la programmazione generale: sappiamo che un vero, grande ostacolo all’attrazione degli investimenti risiede soprattutto qui, piuttosto che nella mancanza di fiscalità di vantaggio o di chimere franche!
E’ nella maggiore qualità istituzionale, nella migliore capacità amministrativa che risiedono le più valide ed efficaci politiche di sviluppo, quelle che ti sanno spingere a localizzare un investimento, che lo accompagnano con opportune politiche fattoriali per portarlo prima a regime e diffonderne gli effetti positivi, costruendo filiere produttive.
Occorre una grande opera di semplificazione legislativa, attraverso l’adozione di testi unici e l’abrogazione delle norme obsolete sovrappostesi nel tempo,
l’adozione di procedure snelle e regolamenti chiari; serve orizzontalità nelle funzioni amministrative al posto della verticalità dei dicasteri chiusi come camere stagne, e la composizione di unità di progetto o di missione sulle questioni complesse, mettendo insieme professionalità e competenze, anziché irrigidirle in sterili conflitti di attribuzioni. Bisogna rafforzare la capacità di lavorare per obiettivi e poi di valutare i risultati anche per premiare l’efficienza degli operatori, in uffici che sanno integrarsi per funzioni e guardare all’ efficacia complessiva dell’azione amministrativa, anziché alla univocità e distinzione dei processi e dei compiti. Ci serve un’amministrazione che sa anche collocare le sue specialità nella dimensione territoriale, anziché avocarle tutte quante al centro:pensiamo, per esempio, alle politiche per l’impiego.
E’ così che si può misurare meglio anche il merito della dirigenza pubblica e che essa può dar prova della sua autonomia rispetto alle interferenze della politica, restituendo ai cittadini la fiducia che hanno perso nelle istituzioni con un’azione efficiente ed efficace.
Ed è qui soprattutto, nella spendita appropriata ed efficace delle risorse che si realizzano anche i più veri risparmi di finanza pubblica, a vantaggio di altre scelte di investimento, mentre questo non succede quasi mai con le politiche dei tagli lineari e ancor meno con l’imposizione di stupidi vincoli di bilancio a priori!
Sono tutte cose, queste, che non si fanno senza il pieno coinvolgimento dei pubblici dipendenti o addirittura contro di loro, sui quali è stato scaricato ogni barile da parte di una politica inconcludente e disonesta, che li ha offesi e vilipesi, anche quando è evidente che sono proprio i dipendenti pubblici a coprire, con dedizione e professionalità, le inefficienze del sistema e la farraginosità delle procedure, e anche a supplire alle manchevolezze dei propri colleghi meno volenterosi, come ci ha insegnato a riconoscere il prof. Sabino Cassese: è ora di finirla con i luoghi comuni contro il pubblico impiego, che non sono altro che un alibi per l’incapacità della politica di realizzare quelle riforme che invece vanno assunte come un serio obiettivo!
È in questo contesto che si colloca anche il tema del rapporto tra Consiglio, Giunta e Presidente – e dell’insieme dell’istituzioni regionali con il popolosovrano – dal punto di vista delle funzioni di indirizzo, governo e controllo, tanto più se lo osserviamo con riguardo al sistema elettorale e alle modalità di consultazione popolare con cui queste funzioni e questi compiti si incarnano: a noi serve una nuova legge statutaria che ridefinisca i diagrammi di flusso tra poteri e funzioni, ma ci serve anche una legge elettorale nuova e decente, perché quella che c’è mi sembra una legge demenziale: non so definire altrimenti una norma capace di tenere fuori dall’espressione di una rappresentanza consiliare chi
consegua il 10% dei voti del corpo elettorale, com’è accaduto ad una raggruppamento di forze politiche che ha preso più di 70.000 voti nell’ultima tornata elettorale regionale, mentre mette dentro a fare il legislatore chi di voti ne ha presi qualche centinaio, giusto quelli dei parenti stretti e degli amici più fidati!
Non basta che sia stata introdotta, poco tempo fa e soltanto grazie alla mobilitazione delle associazioni delle donne, la doppia preferenza di genere per poterla considerare una legge dignitosa, perché in tal modo si è soltanto cercato di porre rimedio ad un’altra grave stortura normativa, che ci aveva fatto regredire rispetto all’obbligo morale e politico di garantire equità nella rappresentanza delle differenze di genere.
3.
La terza macro-area o obiettivo per cui ci interessa la riforma dell’autonomia regionale risiede nella valutazione della nostra netta separazione, in quanto isola, con il resto del continente, quella che ci ha preservato l’unicità dei nostri tratti identitari, ma anche condannato ad una strutturale condizione di debolezza che va affrontata di petto, cercando, possibilmente, di trasformarla in un valore positivo per l’intera comunità più vasta di cui facciamo parte: quella europea.Noi siamo un ponte naturale in cui può passare una nuova strategia euro-mediterranea dell’Unione Europea, alla quale può tornare utile una certa flessibilità normativa per ri-valorizzare il nostro grande bacino marittimo interno,
purché si vincano le resistenze che hanno stravolto la nostra civiltà imponendo a tutti logiche e riferimenti mittel-continentali.
Il Mediterraneo è stato in passato motore di civiltà e creatore di ricchezza per le diverse terre d’Europa. Si tratta, infatti, di regioni che sono storicamente interconnesse tra loro da molteplici contatti culturali e traffici commerciali che si svolgevano attraverso il mare: la Sardegna, sin da tempi dei nuragici, per il bronzo e per l’ossidiana era approdo conteso da punici ed etruschi; per il grano e i metalli in epoca romana, riconquistata ai Vandali da Bisanzio e inserita nel loro Esarcato d’Africa; vittima di frequenti scorrerie e invasioni barbaresche dai califfati arabi ed iberici e assunta quale propria base strategica dalle repubbliche marinare di Pisa e di Genova, fino a diventare una meta della ruta de las islas per
gli aragonesi e poi per gli spagnoli, che ne cedettero il dominio, attraverso gli Asburgo, alla casata dei Savoia – definita la peggiore monarchia del mondo… – che ci portò all’Italia. Ma siamo sempre rimasti sardi, così identificati e denominati, da noi stessi e dagli altri, con una storia, una cultura, delle tradizioni proprie, anche di tipo politico-istituzionale.
Quel che stupisce oggi è che tante delle regioni che si affacciano sul Mediterraneo e che furono tra le più ricche della storia, siano oggi invece tra le
più povere per reddito pro capite, in alcune sensibilmente più basso di quello medio europeo: è questo il segno della stortura a cui è stata condannata la culla della civiltà e dell’idea stessa di Europa.
Ecco, dunque, che la Sardegna può vedere aprirsi davanti uno scenario diverso e positivo, perché può ricoprire un ruolo centrale di snodo per gli scambi internazionali che si sviluppano nel transhipment, che bisogna intercettare e alimentare attraverso una strategia unitaria di programmazione e di accordi commerciali tra gli hub portuali e gli scali secondari, non affidandosi solamente alla via competitiva “bassa” delle franchigie doganali, ma riconnettendoci alle reti di trasporto trans-europee (le TEN-T, le cosiddette “autostrade del mare”).
Su di noi pesa come un macigno l’essere un’isola priva di un retroterra “continentale” che favorisca l’intermodalità dei collegamenti. Perciò serve alla Sardegna una strategia europea che riassegni al mare la sua antica vocazione di via di comunicazione e non, invece, quella nuova di barriera di separazione, assumendo il trasporto marittimo come fattore positivo per la sua maggiore sostenibilità ambientale, quanto a emissioni climalteranti (soprattutto da quando scatterà, dal 2021, l’obbligo di alimentare le navi con il GNL anziché carburanti tradizionali). Insomma, l’insularità può essere assunta anche come fattore differenziale delle politiche di sviluppo regionale, dentro un quadro di
integrazione economica e sociale con le altre regioni d’Europa, con opportune misure per la mobilità sostenibile delle merci e delle persone, che assicurino, in ogni caso, la perequazione dello svantaggio competitivo per il sistema locale dell’isola.
Così si può contribuire a spezzare la condizione di forzosa chiusura e di ripiegamento sulla sua stessa debolezza del sistema produttivo della Sardegna, moltiplicando le occasioni di scambio economico, stimolando e incentivando opportunamente la propensione all’export e alla conquista di nuovi mercati da parte delle imprese locali, che sarebbero indotte per questa via ad un’indispensabile loro crescita dimensionale, contribuendo ad alleggerire i dati statistici del nostro ritardo di sviluppo. Noi dobbiamo, cioè, impegnarci a trasformare il nostro sistema debole e periferico, rompendone l’isolamento dentro una nuova strategia euro- mediterranea, in una terra di accoglienza e d’integrazione sociale ed economica, anche per quei crescenti flussi di migranti che guardano con speranza al nostro mondo, al quale possono apportare nuove energie e nuove capacità: il “capitale
umano” – che da noi s’impoverisce progressivamente a un ritmo ormai impressionante – è il primo fattore di successo su cui puntare per i sistemi deboli, investendo nell’istruzione, nella formazione, nella ricerca e nell’innovazione, nel talento delle persone insomma, che si alimenta con le politiche di rete, con
indirizzi chiari e condivisi e con la sinergia tra soggetti pubblici e privati.
Ci serve, in una parola, un’Unione Europea amica e non straniera, che sappia restituire al Mediterraneo il suo valore unificante di spazio comune per il quale non a caso era chiamato Mare Nostrum.
Perciò individuiamo nella sede europea, la chiave di volta di questa politica utile e progressista, pensando alle modalità di attuazione dell’art. 174 del TFUE, il Trattato di funzionamento dell’Unione Europea, che prescrive un riguardo particolare per le sue regioni insulari e per quelle ultra-periferiche. Ma tutto ciò, evidentemente, va molto oltre un mero quesito referendario sulla insularità quale principio costituzionale: questa politica va costruita nei programmi e perseguita nei rapporti politici internazionali del nostro Paese per diventare efficace, e questo è ciò che andrebbe fatto in ogni caso!
Insomma, il sindacato è favorevole alle riforme, e per questo inserisce spesso questa parola nei suoi striscioni nelle manifestazioni pubbliche. Vuole contribuire al dibattito che le accompagna perché è consapevole della loro valenza generale, che supera la dimensione del pur necessario confronto interno all’ amministrazione tra decisori e dipendenti e coinvolge, invece, gli interessi generali della popolazione, il destino delle comunità locali, le scelte di sviluppo: per questo in un’altra fase recente ci facemmo persino propugnatori della necessità di aprire una nuova “fase costituente” per la revisione dell’autonomia regionale e del legame pattizio che ci stringe alla comunità italiana ed europea.
Non siamo affatto un ostacolo sul cammino di legislatori illuminati quando ci proponiamo di contribuire a tirar fuori dalle stanze del Palazzo questi temi, per farli vivere lì dove matura il consenso più ampio, quello che serve a realizzare compiutamente le riforme.
E non pensiamo né vogliamo offendere nessuno se ci facciamo carico anche noi della responsabilità di contribuire alle riforme di cui abbiamo bisogno, che spesso sono mancate per colpa di noi sardi stessi, piuttosto che per opera di ostacoli esterni alla nostra autonomia: è una ragione anche questa, io credo, del perché essa oggi sia sotto attacco, perché tante forze e opinioni si coalizzano contro quest’istituto autonomistico che anche da noi, come altrove, riesce a mettere in mostra soprattutto
i suoi veri eccessi nello spreco e nelle inefficienze.
Ma il riferimento costante al nemico esterno si presta a divenire facilmente un alibi per scaricarsi di dosso questa responsabilità, alimentando l’illusione che ce la possiamo fare meglio da soli: nessuno basta a se stesso, e men che meno nell’era della interdipendenza globale!
E noi desideriamo crescere con gli altri, non contro gli altri, e neppure a parte rispetto agli altri, perché siamo sicuri di poter portare un contributo importante alla causa comune della ricerca della felicità per gli uomini e alla costruzione di un mondo migliore per tutti, nella pace e nella collaborazione internazionale, fieri di quello che siamo, sardi orgogliosi di quello che sappiamo fare.
Ghilarza 28 aprile 2018