Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
Per l'Europa Federale delle Autonomie e dei Diritti Civili e Sociali - Michele Carrus
A differenza di quanti attribuiscono alla Renovatio Imperii di Carlo Magno l’origine dell’idea di Europa, io appartengo alla schiera di quanti preferiscono collocarla nel Mediterraneo, inteso come culla di scambi, commerci, relazioni politiche e conflitti militari; e se dovessi proprio cercarvi una data di origine, la troverei piuttosto che in epoca carolingia, nel conflitto tra Roma e Cartagine, nel quale la prima riuscì ad imporre il proprio dominio, che progressivamente estese su una scala più che continentale. Da allora il Mediterraneo è stato un crogiolo di fusione di culture, lingue, popoli, che ha dato luogo anche ad una nuova consapevolezza di sé, di un cammino comune per tutte le genti che hanno coltivato e abitato le terre affacciate sulle sue sponde.
È proprio la rottura delle rotte mediterranee dei traffici e degli scambi ad opera delle invasioni dei barbari, prima, e della espansione degli arabi, poi, che ha segnato la conversione verso l’entroterra dei principali interessi economici e politici degli abitanti dei territori europei; mentre, invece, è la ripresa di quei traffici e commerci che segna la rinascita della civiltà comunale e, con essa, l’evoluzione anche degli ordinamenti statuali, in un miscuglio di tradizioni che andarono consolidandosi in una tensione continua tra innovazione e conservazione; ma sono le attività e i collegamenti via mare che determinarono la crescita dimensionale e l’affermazione degli Stati nazionali intorno alle dinastie regnanti, antiche e nuove, le quali, prima attraverso il colonialismo commerciale e poi attraverso l’imperialismo sfruttatore, sfogarono all’esterno una parte importante dei propri conflitti per il bisogno di estendere e consolidare il proprio dominio politico e di accaparrarsi maggiori risorse per farlo.
Per contro, per paesi come la Germania e l’Italia, che arrivarono più tardi degli altri alla costruzione dei loro Stati nazionali unitari, è l’insufficienza di “spazi vitali” disponibili altrove che li ha spinti a ricercare la propria espansione a danno dei vicini Paesi dentro i confini europei, scatenando nel ‘900, dietro ideologiedeviate, i conflitti più atroci, che hanno purtroppo avuto una connotazione globale e hanno portato alla catastrofe dell’umanità.
Ecco, l’Europa contemporanea rinasce qui, come rimedio al “male assoluto” e per lo sviluppo di un mondo che vuole gettarsi dietro le spalle questo recente e tragico passato: la creazione delle prime istituzioni europee, infatti, dà avvio a un’epoca di pace e di progresso come mai si era visto prima nel vecchio continente.
Ora, però, assumere questo punto di vista della centralità storica del Mediterraneo in Europa comporta delle implicazioni.
La prima è che il mare crea collegamenti non barriere, e dietro l’ideale europeista c’è dunque un’idea di fratellanza tra popoli vicini, che significa l’Europa sociale dei diritti e del lavoro come obiettivo che ha raccolto un consenso largo e le speranze di diverse generazioni, finora, che hanno visto in esso la chiave di volta verso un futuro migliore.
Ma allora com’è potuto accadere che si sia persa per strada questa coscienza comune?
Una delle cause sta nel trionfo del mercatismo, dell’idea della primazia degli interessi e delle organizzazioni economiche e finanziarie sugli aspetti della vita sociale e civile; sta nella scelta del modello economico liberista e ispirato allo Stato minimo – che si pretende quasi neppure regolatore dei movimenti di struttura - e nel tabù dell’austerità di bilancio, quella che preferisce strangolare i greci piuttosto che socializzarne una parte del loro debito pubblico e bancario; e, poi, l’accompagnare questa visione dell’Europa con una ipertrofia burocratica capace di diffondersi su una disciplina di dettaglio dello spessore del cellophane che avvolge il vassoio delle carote nel bancone del fruttivendolo, fino a mortificare le attività economiche di prossimità; e poi le asimmetrie dei sistemi nazionali del welfare, dei servizi sociali e del fisco, oppure ancora lo strabismo di Direttive ingiuste come la Bolkestein, che impongono la preminenza degli interessi commerciali anche sui liberi movimenti delle persone che lavorano e sui trattamenti che le riguardano: è qui che ha preso piede quell’idea, purtroppo pervasiva quanto una buffissima barzelletta, e altrettanto seria, che sia preferibile o addirittura indispensabile uscire dal mercato e dalla moneta comuni.
E tuttavia occorre dire e prestare attenzione al fatto che i giovani non la pensano così, che tra i “millennials” delle generazioni più recenti non ci sono manifestazioni evidenti di sentimenti antieuropeisti, anzi i nostri ragazzi si sentono intimamente cittadini d’Europa e lo dichiarano anche quando danno qualche segno di superficiale ammiccamento a idee balzane e xenofobe verso i migranti poveri africani e asiatici: c’è un misero fallimento educativo dietro quella “paura dell’uomo nero” che è inversamente proporzionale alla disponibilità all’accoglienza verso i migranti con il portafoglio più gonfio, quali adesso sono spesso considerati anche i cinesi, verso i quali sembra improvvisamente sbocciata una sorta di distaccata miglior reputazione anche tra i razzisti da bar.
La seconda implicazione è che il “Mare Nostrum” deve ritornare ad essere centrale nelle politiche europee, perché è davvero singolare che oggi si affaccino sul Mediterraneo molti paesi che un tempo rappresentavano le nazioni più ricche del mondo e che oggi sono invece proporzionalmente tra i più poveri del vecchio continente. Ciò significa che vanno ri-orientate verso la sponda sud e verso il vicino oriente politiche europee fatte di nuovi rapporti con quei paesi, da cui partono anche intensi flussi di migranti, di persone che cercano per sé una vita nuova e migliore, ma che rappresentano anche per noi una vera linfa vitale: bisogna dire con forza parole di verità, e parole di verità sono che il saldo demografico naturale dell’Europa è tale per cui ogni anno avremmo bisogno di almeno tre milioni di persone in più che vengano da fuori a rivitalizzare i nostri paesi, le nostre città, le nostre campagne, le nostre fabbriche, i nostri servizi, insomma la nostra vita sociale ed economica interna, ciò che dimostra quanto siano false e sbagliate le spinte razziste della propaganda estremista di quelle destre che hanno risollevato la testa in troppi Paesi anche a causa dell’indeterminatezza della politica europea comune su questo versante. Per scongiurare l’impoverimento inesorabile al quale andiamo incontro, occorre davvero investire in una politica comune europea così indirizzata: l’Italia, ad esempio, investe nei Paesi in via di sviluppo non l’1% del proprio Pil, ma a malapena lo 0,16%, smentendo gli impegni internazionali assunti e rivelando l’ipocrisia dei ragionamenti e di quanti predicano che bisogna aiutare i migranti in casa loro.
Un altro elemento di riflessione è che sia ora di piantarla di pensare all’Europa soltanto in termini di convenienza o meno a restarci, perché questo modo di vederla non è altro che l’altra faccia della medaglia dell’ideologia mercatista delle classi dominanti; e poi dimostra una ulteriore debolezza di pensiero della sinistra, che è andato caratterizzandosi per la accettazione sostanziale del paradigma ideologico liberista: come altro definire quella prospettiva dell’economia sociale di mercato che, di fronte al trionfo del turbo-capitalismo, si propone soltanto il compito e l’obiettivo politico di attenuarne gli effetti negativi sulle persone e sulle comunità locali, rinunciando in questo modo alla cifra distintiva della sinistra, cioè il cambiamento del corso delle cose per sconfiggere le diseguaglianze e affermare la giustizia sociale?
E tuttavia occorre spiegare con chiarezza che senza l’Unione Europea tutti avremmo minori vantaggi pratici, e noi italiani in particolare, vista la consistenza del nostro debito pubblico: avere per esempio una lira svalutata al posto dell’euro implicherebbe nient’altro che un immiserimento immediato dei redditi fissi da lavoro e da pensione, il peggioramento dell’esposizione debitoria pubblica e privata che continuerebbe ad essere espressa nella valuta forte e una contestuale svalutazione dei risparmi, la compressione per le famiglie della capacità di consumare i prodotti e servizi creati dal nostro sistema produttivo, il quale rischierebbe di avvilupparsi così intorno a se stesso, tranne forse per quelle poche imprese capaci di trarne profitto sui mercati internazionali. Oppure si potrebbe considerare che mettere insieme la spesa militare di tutti gli Stati europei, che oggi ammonta ben 193 miliardi di euro all’anno, comporterebbe un risparmio immediato da alcuni studiosi calcolato tra i 26 e i 63 miliardi di euro a regime - al netto o meno della spesa destinata all’industria della difesa - compensato, però, da una maggiore efficienza complessiva: quanti investimenti in più si potrebbero fare con questisoldi, o quanti aiuti in casa loro si potrebbero dare ai Paesi bisognosi di solidarietà!
Infine, tutto questo significa che bisogna ritornare allo spirito originario che animò molti tra i padri fondatori: bisogna costruire gli Stati uniti d’Europa, capaci di federare insieme, attraverso una progressiva cessione di sovranità al livello più alto da parte degli Stati, le comunità territoriali, anche per rimettere insieme per questa via quelle realtà che oggi sono transfrontaliere, ma che hanno una storia e una matrice culturale comune, ma anche capace di dare più senso, paradossalmente, alle specifiche identità nazionali/regionali che oggi si trovano, forse, troppo “strette” dentro le attuali cornici politiche dei singoli Stati. Occorre provare, cioè, a costruire l’Europa sociale dei popoli e dei diritti, democratica e rappresentativa, con le sue istituzioni autorevoli costituite su base elettiva.
Sicuramente si può cominciare con una politica estera e di difesa comune che superi la sostanziale afasia dell’attuale Commissariato, ancora succube delle diversità di vedute tra i singoli Governi nazionali, e da una politica comune fiscale e di bilancio, che non soltanto armonizzi i trattamenti dei cittadini e delle imprese, ma che possa mettere a fattore comune le risorse utili per investimenti anche, per esempio, attraverso la leva finanziaria degli Eurobond; ma bisogna anche cominciare a definire con chiarezza quel ventaglio di diritti e di prestazioni omogenee di protezione sociale che ci aiutino ad affrontare, senza che nessuno resti indietro, i grandi cambiamenti epocali che stiamo attraversando; e poi serve definire i contorni e i principi costituzionali inderogabili di una cittadinanza comune europea che ci imporrebbero già da oggi di condizionare l’adesione dei nuovi soci dell’est di Visegrad all’abbandono di comportamenti politici inconciliabili con la democrazia e il diritto universale, quali quelli adottati da un signore come Orbàn, che ha imposto il “razzismo di stato” ai suoi concittadini, un operato che forse più consono ad una satrapia orientale d’altri tempi che non ad un moderno e civile paese europeo.
Insomma a noi serve più Europa e non meno Europa, anche perché le sfide globali oggi sono quelle che si giocano tra macro-sistemi continentali e tutti i Paesi europei sono troppo piccoli, separatamente presi, per poter reggere queste sfide.
Insieme invece possiamo contribuire al progresso dell’umanità nella pace e nel multiculturalismo.
Ed è anche in questo obiettivo di alto valore che si può rigenerare una nuova sinistra capace di narrare in modo avvincente un futuro migliore per tutti.
Cagliari 25 giugno 2018