Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
Il 1989 è stato un anno topico per il Vecchio Continente, l’anno degli stravolgimenti nell’Europa dell’Est che, di fatto, hanno cambiato gli scenari a cui i paesi europei, e il mondo, si erano abituati, dando il via alle modifiche dei trattati fondativi delle Comunità Europee, l’anno della caduta del sistema sovietico, che, a scapito di una ipotesi prevalente negli anni Sessanta del Novecento non cadde per una guerra nucleare, ma per l’implosione dei regimi dell’Est (A. Casaroli, Il martirio della pazienza, Torino 2000).
Invero, le proposte di modifica dei trattati di Roma erano già sui tavoli delle cancellerie europee a partire dal 1983, grazie soprattutto alla spinta del Movimento Federalista europeo, guidato da Altiero Spinelli, nonché alle necessità contingenti di avviare una profonda revisione nel funzionamento delle istituzioni comunitarie, tanto che nel 1985 si arriverà alla stipulazione dell’Atto Unico Europeo. Dal punto di vista della politica internazionale, invece, l’arrivo al punto nodale del 1989 è anticipato da una politica statunitense, ove dal 1981 è presidente Ronald Reagan, divisa in due fasi: quella della ripresa del confronto con l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche fino al 1986 e quella della distensione e del dialogo successivamente alla presa di potere di Mikhail S. Gorbaciov.
Come si è detto, durante il suo primo mandato il Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan attuò una politica di forte contrapposizione nei riguardi dell’Unione Sovietica, al punto da alzare nuovamente la posta del confronto militare e del riarmo ( E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, II, Bari-Roma 2015; A. Canavero, a cura di, Storia delle relazioni internazionali, Torino 2014). Quando nel 1985 Gorbaciov diviene Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietiche e, de facto, capo dello Stato si ritrova tra le mani una situazione economica esplosiva, sicuramente peggiorata a causa della politica attuata negli anni precedenti dal Presidente Reagan e dalla corsa agli armamenti, seguita in modo rovinoso dai suoi predecessori. Gorbaciov si rende conto che l’unico modo per far uscire il suo paese dall’impasse è quello di avviare nel più breve tempo possibile solide riforme economiche e sociali che possano sbloccare il paese, tentando così di arrestarne la corsa verso il tracollo economico. Le proposte del nuovo leader sovietico non puntano a soverchiare i principi del comunismo, quanto ad aggiornarli per renderli maggiormente funzionali alle sfide economiche che il paese si trova ad affrontare ( M. S. Gorbaciov, Perestrojka, Milano 1987).
Nella realtà il compito del nuovo segretario è improbo perché l’economia sovietica è sull’orlo del collasso, Gorbaciov tuttavia non si dà per vinto e avvia un timido, ma coraggioso percorso di riforme economiche, sociali e culturali, affiancando alle riforme, dette ristrutturazione (glasnost), l’idea della trasparenza del regime sovietico e della liberalizzazione (glasnost). Naturalmente non era possibile per l’Unione Sovietica affrontare le riforme economiche in solitudine, senza che gli altri paesi della sua sfera d’influenza, con i quali gli scambi commerciali erano particolarmente forti, facessero altrettanto. Mosca invitò dunque tutti i paesi del Patto di Varsavia - che oltre ad essere un accordo militare creava anche dei legami economici, politici e sociali - ad affrontare in modo simile all’URSS le riforme economiche necessarie per creare una zona di scambio e commercio esclusiva. Tutti i paesi del Patto di Varsavia, tranne uno, la Germania Est, avviarono le riforme richieste dal Cremlino.
Il fatto che la Repubblica Democratica Tedesca non compisse le riforme metteva a repentaglio la tenuta delle stesse innovazioni dell’Unione Sovietica, essendo i sistemi economici troppo legati fra loro (Di Nolfo, op. cit.) e creava problemi di tipo sociale perché i cittadini dei paesi membri del Patto di Varsavia potevano muoversi liberamente entro i confini del Patto stesso, ciò che i cittadini della Germania Est facevano in effetti, spostandosi verso i paesi che erano più avanti nelle riforme economiche, per poi chiedere asilo alle ambasciate della Germania Federale (P. Pastorelli, La Santa Sede e l’Europa centro-orientale nella seconda metà del Novecento, Soveria Mannelli 2013). Il Segretario Generale Gorbaciov colse l’occasione di una visita ufficiale a Berlino Est, per i festeggiamenti del quarantennale della Germania Democratica, il 7 ottobre 1989, per sferzare la dirigenza della DDR con una frase incidentale nel suo discorso, affermando che «i pericoli attendono coloro i quali non reagiscono agli stimoli della vita». Nonostante Herik Honecker nel giro di pochi giorni dalla visita di Gorbaciov fosse sostituito come leader della DDR, le proteste continuarono inesorabili e quella che era diventata ormai soltanto una barriera fisica, il Muro, crollò sotto il peso della storia, soltanto due anni dopo che il presidente Reagan, nel giugno 1987, aveva gridato a una folla attonita: «Mr. Gorbachev, tear down this Wall» (Di Nolfo, op. cit.).
La caduta del muro, come si è detto, portò con sé nuove opportunità per l’Europa, insieme alla ormai possibile riunificazione della Germania, che avvenne puntualmente, non senza contrasti e dubbi, meno di un anno dopo, nell’ottobre del 1990. Il processo che portava alla riunificazione della Germania vedeva coinvolti diversi attori, soprattutto in assenza, a distanza di oltre quarant’anni, di un trattato di pace, dovuta al fatto che gli Accordi di Potsdam del 1945 avevano previsto che si sarebbe firmato un trattato di pace quando vi fosse stato un governo tedesco in grado di farlo. Tra questi attori vi erano, certamente, i paesi vincitori della Seconda Guerra Mondiale, che della Germania erano stati occupanti e che ancora vantavano diritti su Berlino, ma anche la Comunità Europea, che seppur indirettamente, aveva voce in capitolo, non foss’altro perché la Germania Est era uno Stato esterno che avrebbe dovuto transitare come parte della Germania Ovest o fare richiesta di adesione. Paradossalmente, per lo meno tramite la Comunità, anche l’Italia, un paese sconfitto, ebbe da dire la sua su una vicenda che avrebbe dovuto vederla estranea, con una posizione, espressa dal presidente del Consiglio dell’epoca, Giulio Andreotti, non totalmente favorevole alla riunificazione, il quale rifacendosi a una frase di François Mauriac esclamò: «amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due».
Il problema della riunificazione della Germania, per i paesi europei, risiedeva nel fatto di trovare il modo di ancorare la Germania alla Comunità, nata per il reinserimento del paese sconfitto nel contesto economico e politico europeo alla fine della guerra. La Francia, in particolar modo, temeva che la Germania, una volta avuta l’autorizzazione a riunificarsi non vedesse più necessaria l’appartenenza alla Comunità Europea e pertanto serviva un qualcosa che la legasse ancora al futuro dell’Europa. Il presidente francese François Mitterrand, probabilmente rifacendosi a quanto Jean Monnet aveva proposto in passato, chiese ed ottenne dal cancelliere tedesco federale Helmut Kohl la promessa della partecipazione della Germania alla nuova moneta unica, di cui si parlava da anni, moneta che avrebbe avuto come punto di riferimento per la sua costruzione il marco tedesco. Così facendo Mitterrand riuscì a convincere gli altri leader europei della bontà dell’operazione relativa alla riunificazione.
Di diverso avviso si dimostrarono il governo britannico e inizialmente anche quello sovietico, anche se con diversi toni e differente approccio. Il primo ministro Margaret Thatcher, difatti, si mostrò contraria all’ipotesi del riemergere di una Germania potente e si fece portavoce presso Kohl delle preoccupazioni della Francia, dell’URSS e dei paesi orientali circa la riunificazione, sia per l’impatto economico, sia per quello geopolitico legato ai confini orientali, i quali sarebbero dovuti rimanere invariati, anche facendo seguito a quanto deciso alla Conferenza di Helsinki del 1975. Favorevole si dimostrò invece soprattutto Washington. E lo stesso Cremlino, sicuramente comprendendo appieno le aspirazioni del popolo tedesco, dall’iniziale ritrosia passò a un moderato possibilismo, che divenne pieno appoggio in cambio di un contributo finanziario tedesco sotto forma di aiuto per la smobilitazione dell’Armata Rossa. Washington dal canto suo non voleva scontentare la Germania Federale, le aspirazioni tedesche, né creare difficoltà al Cancelliere Kohl.
Una volta superate le resistenze di Mosca la strada per i tedeschi si rivelò in discesa e gli unici paesi ancora perplessi il Regno Unito e la Francia dovettero cedere. I punti fermi posti alla Germania furono un trattato sull’accettazione dei confini, firmato nel novembre del 1990 e l’accettazione del percorso che portava alla moneta unica (M. Thatcher, Gli anni di Downing Street, Milano 1993). Dopo la firma del Trattato sullo Stato Finale della Germania a settembre 1990 la via per la riunificazione era segnata ed essa avvenne il 3 ottobre 1990.
La riunificazione e il via libera de facto all’unione economica e monetaria portarono i paesi europei a riprendere, a stretto giro di posta, il discorso relativo alla revisione dei Trattati di Roma, avviato timidamente qualche anno prima con la firma dell’Atto Unico Europeo. Così come in altre occasioni, e come i negoziati sulla riunificazione avevano dimostrato, anche nel caso della moneta unica europea il Regno Unito non si trovava sulle stesse posizioni degli altri partner europei. I paesi della Comunità, tuttavia, avevano anche la necessità di rendere le istituzioni europee maggiormente consone agli accresciuti compiti e, in questo contesto, si doveva tenere conto delle istanze che provenivano dai movimenti per l’unità europea, primo fra tutti dal Movimento federalista di Altiero Spinelli che da diversi anni perorava la causa di un’Europa federale, idea che in Italia aveva addirittura raggiunto le aule parlamentari per la richiesta di convocare un referendum consultivo, da abbinare alle elezioni per il Parlamento Europeo, nel quale i cittadini italiani furono chiamati ad approvare o meno l’idea di creare una costituzione europea. L’idea del referendum fu approvata da una legge costituzionale, che passò all’unanimità nei due rami del Parlamento italiano e lo stesso referendum riscosse un successo con percentuali altissime, l’88 per cento dei votanti si dichiarò a favore. Altiero Spinelli era d’altronde dell’idea che la spinta per l’unità europea dovesse arrivare dai popoli più che dai governi, i quali avevano alle volte interessi se non contrapposti, per lo meno non totalmente coincidenti.
L’idea del Movimento Federalista Europeo di Spinelli, seppur non unanimemente condivisa dai capi di stato e di governo comunitari, trovò nondimeno un qualche riscontro perché ci si rese conto del fatto che le istituzioni europee non fossero più al passo con i tempi e andassero in qualche modo riformate, anche perché l’Atto Unico Europeo del 1985 aveva solo iniziato ad affrontare il problema. Quello che il Movimento Federalista Europeo aveva posto era un problema serio, mancava difatti all’interno delle Comunità una guida politica a livello centralizzato e a questo rispondeva l’idea rilanciata da Spinelli per la creazione dell’Unione Europea. La questione non era nuova, in quanto anche Charles de Gaulle, non appena eletto presidente della Repubblica Francese si era posto il problema, a cui aveva cercato di dare una risposta con il fallito tentativo di Christian Fouchet di dare una guida politica alla Comunità Economica Europea, nata da pochi anni. Il tentativo fallì per la protervia degli Stati di mantenere un controllo indipendente e non gestirlo a livello centralizzato. De Gaulle, contrario al federalismo europeo, aveva almeno capito che serviva legare maggiormente le istituzioni comunitarie agli Stati e ai popoli cercando di colmare così il deficit di democrazia rappresentativa che le caratterizzava.
Nel 1990, dopo il referendum consultivo italiano, nel pieno delle negoziazioni per la riunificazione della Germania, si riunì un’assemblea a Roma per discutere dell’eventualità di creare una costituzione europea (U. Morelli, Storia dell’integrazione europea, Milano 2011). Un esercizio difficile delle cui difficoltà si erano resi conto i soci dell’Associazione Pan Europa, fondata dal Conte Richard Coudenhove Kalergi, quando nel lontano 1944, durante un convegno a New York, avevano tentato di creare una costituzione per l’Europa del dopoguerra senza trovare però la quadra e rendendosi conto che troppe erano le idee in merito e troppo diverse le aspirazioni dei popoli e degli Stati, pur nella comune volontà di trovare una soluzione valida per tutti (C. Rossi, in R. Di Quirico, a cura di, L’Unione europea, Firenze 2016). Dopo il 1989 però, in seguito al crollo del Muro di Berlino, alla riunificazione della Germania e alla creazione della moneta unica europea i tempi erano maturi, se non per una costituzione, certamente per una revisione profonda e radicale dei Trattati di Roma e delle istituzioni comunitarie.
Il Trattato di Maastricht fu il mezzo utilizzato per la modifica dei precedenti trattati, un accordo molto voluminoso con più di duecento articoli che mutava radicalmente i rapporti di forza all’interno delle istituzioni delle Comunità, le quali venivano ribattezzate Unione Europea, così come Altiero Spinelli aveva auspicato, e ne modificava le funzioni, ampliandole e chiarendole. Il Trattato istituiva anche l’Unione Economica e Monetaria e spianava la strada per la creazione della moneta unica, che avrebbe preso il nome di Euro, sostituendo l’ECU, la precedente unità di conto comunitaria. L’Euro avrebbe visto la luce nel 2002 e i paesi destinati a farne parte avrebbero dovuto rispettare dei parametri rigidissimi imposti dalla Germania, che rimaneva l’azionista di maggioranza dell’operazione, avendo conferito il Marco tedesco come moneta cardine della nuova divisa comune.
La creazione dell’Unione Economica e Monetaria portò quindi a una profonda revisione delle istituzioni europee e alla creazione di regole per l’armonizzazione delle economie e delle monete dei paesi candidati ad entrare nella nuova divisa. Ancora una volta i paesi della vecchia Europa in ossequio alla volontà di mantenere la pace e la concordia nel Continente vennero in aiuto della Germania permettendone la rapida riunificazione, facendo di questo rinato grande paese l’elemento cardine della nuova Unione Europea. La Germania dal canto suo dettò le regole per l’accesso alla nuova moneta, regole che dovevano servire a proteggere l’Euro dalle speculazioni e fluttuazioni che avevano caratterizzato il Sistema Monetario Europeo nel decennio precedente ( R. Di Quirico, L’euro, ma non l’Europa, Bologna 2007).
Il Trattato di Maastricht nacque dopo lunghe discussioni tra gli Stati membri - in particolare il Regno Unito ottenne cinque cosiddetti “opt-out”, che garantivano la non partecipazione sull’Unione Economica e Monetaria, sul Trattato di Schengen, su Giustizia e Affari interni, Carta dei Diritti Fondamentali, capitolo sociale - , e dopo un tortuoso passaggio referendario in Francia, Danimarca e Irlanda. Mentre in Irlanda le urne diedero un responso ampiamente favorevole, in Francia la vittoria dei sì fu di misura e si poté considerare un avvertimento per François Mitterrand, il presidente che più di tutti si era speso per il trattato. La Danimarca, al contrario, votò contro e fu soltanto dopo la concessione di quattro “opt-out”, sull’Unione Economica e Monetaria, sulla cittadinanza, sulla Difesa e sulla Giustizia e Affari Interni, che il popolo danese nel 1993 in occasione di un secondo referendum ratificò il trattato.
Il Trattato di Maastricht, come si è detto, oltre alla creazione della moneta unica modificò radicalmente le istituzioni introducendo una maggiore condivisione nelle decisioni e, grazie all’apporto di Spagna e Italia, introdusse alcuni istituti fondamentali per il futuro sviluppo dell’Unione. In particolare, su suggerimento della Spagna, nacque l’idea fondamentale del conferimento della cittadinanza europea a tutti i cittadini degli Stati membri, un principio in base al quale è stato costruito un forte senso di appartenenza europeo. Altri due tasselli furono la creazione di un adeguato meccanismo redistributivo delle risorse tra i membri dell’Unione in modo da evitare disparità troppo elevate tra i vari paesi, anche in funzione di un’armonizzazione delle economie in vista della creazione della moneta unica, e la creazione di una struttura di difesa comune, necessaria dopo la fine della Guerra Fredda, e il possibile disimpegno statunitense, in un futuro prossimo.
L’Italia, grazie alla spinta di Spinelli, ebbe una parte importante nella ridefinizione dell’architettura istituzionale tanto che passò l’idea che l’Unione si componesse di un Parlamento bicamerale, con la rappresentanza diretta dei popoli e degli Stati. Ciò che poi avvenne nei fatti con il rafforzamento del ruolo del Parlamento Europeo, eletto a suffragio universale dal 1979, ma rafforzato nei suoi poteri di condivisione, co-decisione, indirizzo e voto di fiducia sulla Commissione Europea, in rappresentanza dei popoli, e con l’istituzionalizzazione del Consiglio dell’Unione Europea, vera e propria camera alta del sistema legislativo europeo dove sono rappresentati gli interessi degli Stati, che partecipano con un ministro competente per materia (B. Olivi, R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea, Milano 2005). Va da sé che questa particolare struttura del Trattato di Maastricht, quando se ne profilò l’ideazione, fu oggetto di un vibrante discorso contrario dell’allora primo ministro Margaret Thatcher alla Camera dei Comuni.
L’aumento dei poteri del Parlamento e delle materie oggetto di indirizzo comunitario non portarono, tuttavia, all’adozione di quanto Altiero Spinelli e molti altri avevano sperato, perché la volontà di mantenere i poteri e le funzioni degli Stati era troppo forte per lasciare spazio al federalismo e il massimo che si riuscì a ottenere fu il principio di sussidiarietà. Le principali e più importanti innovazioni del Trattato di Maastricht sono probabilmente la cittadinanza europea e la libera circolazione (delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali), un privilegio che non appare tale a chi ne ha sempre goduto, ma che risulta evidente e di valore inestimabile a chi ne è escluso (E. Calandri, R. Ranieri, M. E.Guasconi, Storia politica ed economica dell’integrazione europea dal 1945 ad oggi, Napoli 2015). Un valore forse poco percepito anche a giudicare dalla risposta di alcuni dei popoli che hanno approvato di stretta misura il referendum confermativo sul trattato o hanno operato scelte differenti negli anni seguenti.
Successivamente alla ratifica del Trattato di Maastricht e della sua messa in pratica, nel corso degli anni ha cominciato a soffiare dapprima come brezza leggera e isolata e in seguito sempre più forte il vento dell’euroscetticismo, un vento arginato negli anni novanta dalla favorevole congiuntura economica, in quello che può essere considerato il decennio d’oro dell’Unione europea, ma successivamente alimentato dalla crisi economica scatenatasi dal 2007 e avente come culmine il 2011. L’euroscetticismo si è poi intersecato con l’operazione di allargamento a Est portata avanti proprio nel decennio d’oro dell’Unione quando i paesi dell’ex blocco sovietico sono stati ammessi, uno dopo l’altro a far parte dell’Unione (V. Castronovo, L’avventura dell’unità europea, Torino 2004; I. D. Mortellaro, Tra due secoli. Tappe e approdi dell’Unione europea: 1989-2011, Molfetta 2011).
Il processo lungo e graduale ha richiesto negoziati meticolosi per il rispetto dei parametri di Copenaghen da parte dei nuovi membri, il cui cardine sono il rispetto della legalità, dei diritti umani, della democrazia e la protezione delle minoranze. Il processo di allargamento, più che un vero e proprio negoziato comporta l’accettazione da parte dei candidati di tutti i trattati che formano il corpus delle norme dell’Unione. Guardando in maniera retrospettiva la paura dell’allargamento a Est era legata al problema delle massicce migrazioni da quei paesi, un problema che l’Italia aveva dovuto affrontare nel caso dell’Albania in totale solitudine (Calandri, Ranieri, Guasconi, op. cit.). Successivamente al Trattato di Maastricht, e sulla scia dell’allargamento, l’Unione Europea ha cercato di stabilizzare la sponda sud del Mediterraneo mediante la chiusura di un accordo onnicomprensivo, il Partenariato Euro-Mediterraneo di Barcellona del 1995.
La ricerca di un accordo con i paesi dell’Africa del Nord e del Vicino Oriente era per l’Europa di fondamentale importanza e già dagli albori delle Comunità si era cercato un modus vivendi con i paesi in uscita dal tormentato periodo coloniale (A. Duce, Storia della politica internazionale (1945-2013), Roma 2013). Nel 1995 si trovò la formula del partenariato onnicomprensivo diviso in tre cesti: politico, economico e sociale. Parallelamente si cercarono di attuare due azioni: l’adozione della Carta per la pace e la stabilità e la zona di libero scambio, la prima presupposto indispensabile per la seconda. La litigiosità dei paesi coinvolti, le secolari inimicizie e la mancata spinta propulsiva europea contribuirono al fallimento delle due azioni complementari, ma non del partenariato che nel 2008 fu trasformato in Unione per il Mediterraneo (C. Rossi, in A. Sassu, S. Lodde, a cura di, Tra il nuovo e il vecchio. I cambiamenti politici del Nord Africa, Roma 2012), un’organizzazione guidata dall’Unione europea che dopo le difficoltà delle Primavere Arabe è in cerca di una nuova collocazione, per un’area che già Gaetano Martino, allora ministro degli affari esteri italiano aveva definito di importanza fondamentale per l’Europa e per la sua stabilità (C. Rossi, La Freedom doctrine di John F. Kennedy, Milano 2006).
In seguito all’allargamento l’Unione europea dovette nuovamente ripensare alle materie di sua competenza e all’architettura istituzionale, la quale necessitava di un ritocco in seguito alla presenza di un numero di paesi più che triplicato rispetto alle origini. I trattati di Amsterdam e Nizza furono l’occasione per queste modifiche, poi definite con il Trattato di Lisbona, che cercò di rimediare al fallimento della Costituzione europea del 2004, bocciata in fase di ratifica per la mancata approvazione nei referendum popolari in Francia e Paesi Bassi. L’avvento al potere del Partito Laburista britannico di Tony Blair nel 1997, un leader fortemente filoeuropeista, portò alla revoca di uno degli opt-out ottenuti da John Major nel 1992, quello sul capitolo sociale. Si trattò di una scelta che negli anni a venire fu cavalcata dagli euroscettici britannici dell’UKIP (United Kingdom Independence Party) per fare una campagna sui media e sulla stampa contro le ondate migratorie provenienti sia dai paesi europei, sia dai paesi extraeuropei, queste ultime più mediatiche che effettive, verso il Regno Unito. È uno degli aspetti che ha influito maggiormente, insieme alla lotta contro la sempre più pervasiva burocrazia europea, nel referendum sull’uscita dall’Unione europea tenuto nel giugno 2016 nel Regno Unito e vinto di misura dai favorevoli all’uscita (C. Rossi, Il Regno Unito, l’Unione Europea e il referendum sulla Brexit del 2016, in «Tetide», 2017, n 5).
Il referendum britannico e tanti altri problemi aperti, quali la crisi del debito sovrano a partire dal 2011, le ondate migratorie extraeuropee nei paesi dell’Est e del Sud d’Europa, lo strisciante euroscetticismo e la forte virata di molti governi verso amministrazioni di destra e populiste, hanno lasciato il futuro dell’Unione con più interrogativi che certezze. L’Europa unita, un sogno divenuto realtà come conseguenza della fine della seconda guerra mondiale, nella ricerca della convivenza comune, della solidarietà e della pace, rischia di infrangersi quasi per un ricorso storico di quelle stesse idee che sono state combattute e rigettate nel corso di due guerre mondiali: il nazionalismo e la xenofobia.
Cagliari 25 giugno 2018