Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
Per una nuova Carta Autonomistica e Federalista dei Sardi - Gian Giacomo Ortu
Lo Statuto sardo: un parto imperfetto
Non è inutile ricordare, in avvio di discorso, che tanto gli Statuti speciali quanto l’intero ordinamento regionale e autonomistico della Repubblica italiana furono il frutto di quel «principio di autonomia» che Lussu era riuscito a introdurre nella Costituzione nonostante le tendenze centralistiche prevalenti nella Costituente.
Questo «principio di autonomia» – da intendere come principio fondante la libertà e la democrazia – aveva il suo complemento necessario nella teoria federalista dello Stato che Lussu aveva approfondito negli anni dell’esilio, in seno al movimento di Giustizia e Libertà. Ma poiché la strada del federalismo si era subito rivelata impraticabile per la mancanza di consenso in seno alla Costituente, Lussu concentrò il suo impegno sull’ordinamento della Repubblica per autonomie, alcune delle quali da intendere come «speciali» per le particolari condizioni etniche, storiche e geografiche di alcune regioni. Dal suo punto di vista era comunque un ripiegamento perché, come disse nella discussione sull’art. 5 della Costituzione – «queste nostre autonomie possono rientrare nella grande famiglia del federalismo così come il gatto rientra nella stessa famiglia del leone».
Nel caso della Sardegna lo Statuto speciale – approvato dalla Costituente il 31 gennaio 1948 - non presentava alla nascita neppure i tratti del più modesto (ma sempre nobile) felino domestico. E non solo per i limitati poteri e competenze che conferiva alla Regione, ma perché mancava di ogni ispirazione storica, culturale e ideale e non recepiva neppure l’indicazione di Togliatti dell’autonomia come grande questione democratica del popolo sardo. La motivazione della «specialità» del nostro statuto insisteva infatti, essenzialmente, nella condizione di grave svantaggio economico dell’isola.
Quest’oblio della storia e della cultura della Sardegna portava con sé, inevitabilmente, l’oscuramento della personalità e soggettività del suo popolo, quale si manifestava, soprattutto, nell’assenza di ogni riferimento dello Statuto alla questione della lingua, il primo ed essenziale marcatore identitario. Pochi anni dopo, nella fase di elaborazione e attuazione del Piano di Rinascita lo stigma dell’arretratezza giunse ad infettare l’intero campo di espressione dell’identità sarda. I pianificatori considerarono infatti un ostacolo allo sviluppo economico e civile dell’isola tutte quelle eredità e depositi della tradizione che oggi inscriviamo nel concetto di heritage, di patrimonio storico e culturale, cui possiamo attingere per i progetti di sviluppo locale.
La Regione come costruzione burocratica
Approvato lo Statuto e avviato il processo di costruzione istituzionale della Regione, questa assumeva subito i connotati di una macchina per l’esercizio del potere, di una struttura burocratica sovrimposta alle realtà locali, in clamoroso contrasto con quel «principio di autonomia» che avrebbe dovuto ispirarla.
Una premessa di questa deviazione o deformazione dell’autonomia era purtroppo nello stesso articolo fondante dello Statuto, il n. 1, che, senza alcun riferimento al popolo sardo come titolare o destinatario di diritti, recita semplicemente, con piglio notarile, che: «La Sardegna con le sue isole è costituita in Regione autonoma fornita di personalità giuridica entro l’unità della Repubblica italiana, una e indivisibile». Ma se la Sardegna era soltanto «un ente», e non anche un soggetto politico, era inevitabile che lo Statuto sardo disegnasse una Regione che mimava lo Stato.
No, mi devo correggere, perché dicendo che lo Statuto disegnava una Regione modellata sullo Stato, ho suggerito l’idea errata che la norma produca da sé la realtà o che un’istituzione sia in sé virtuosa o difettosa. In realtà sono sempre gli uomini a dettare e interpretare le norme, a dar loro corpo ed esistenza.
Un recente studio sulla costruzione della Regione sarda ha puntualmente documentato l’ipoteca che gli interessi dei partiti e delle burocrazie fecero gravare sul suo primo quindicennio di vita: per la rapida apertura dei canali di assunzione clientelare dei dipendenti (cui era anche attribuito un trattamento economico scandalosamente privilegiato); per il patto di ferro che venne a stabilirsi tra i partiti di centro e di sinistra per impedire l’introduzione dei concorsi pubblici e continuare l’allegra e consensuale spartizione di tutti i posti disponibili; per il ritardo nell’approvazione dello stato giuridico del personale, che arrivò soltanto nel 1963.
Possiamo pensare che questa partenza, diciamo sbagliata, del nostro istituto regionale non abbia lasciato il segno nello stile successivo degli uffici e dei dipendenti regionali? Quasi vent’anni dopo, nel 1966, la relazione di una Commissione d’inchiesta sul loro operato denunciava che essi erano normalmente collusi con i partiti, tanto che nelle elezioni del 1961 si erano prestati quasi tutti a sostenere le candidature dei rispettivi assessori.
Chi ha promosso, giustamente, l’intitolazione a Emilio Lussu della sala della Giunta regionale a Palazzo Devoto, deve sapere che in una lettera ad Antonello Satta del 14 ottobre 1972, Lussu scriveva: «Quando penso alla grettezza della maggioranza che ha rappresentato la Regione sarda in questo ventennio, mi viene da vergognarmi di essere il principale responsabile di un istituto che doveva essere l’avvenire del popolo sardo, nella sua vita nuova».
Regione e autonomie locali
Nell’intera storia dell’istituto regionale, il suo rapporto con i territori e con le autonomie locali è stato caratterizzato da un marcato centralismo. Il fatto non sorprende certo per un ente venuto all’esistenza con una spiccata vocazione burocratica e autoreferenziale. La stessa attività legislativa del Consiglio regionale ha avuto quasi sempre come primo risultato quello di aggiungere struttura a struttura, regolamento a regolamento, procedura a procedura, impedimento a impedimento.
Gli interlocutori locali, amministratori e cittadini, hanno perciò trovato sempre più difficoltoso l’accesso ai centri e ai canali decisionali, con la conseguenza che i funzionari regionali sono spesso venuti a trovarsi nella condizione di svolgere le funzioni di «facilitatori» dell’interesse privato piuttosto che di «servitori» dell’interesse pubblico. Gianmario Demuro ha felicemente osservato che l’«eccesso di Regione», la sua bulimia normativa e regolamentare, ha infine tolto ogni credibilità all’equazione più regione = più libertà che i costituenti avevano inteso stabilire dando alla Repubblica un ordinamento per autonomie.
La riforma dell’amministrazione regionale, per quanto di frequente evocata, non è mai stata messa in atto. L’unico provvedimento di razionalizzazione organizzativa è stato la legge regionale n. 1 del 7 gennaio 1977, contenete «Norme sull’organizzazione amministrative della Regione», che ha però riguardato essenzialmente gli assetti centrali del governo regionale – Presidenza, Giunta e Assessorati – senza ricadute significative in termini di efficienza dell’apparato.
Per quanto riguarda l’articolazione territoriale delle autonomie e il loro coordinamento la Regione ha istituito, sul riflesso della legislazione nazionale, nel 1971 le Comunità montane (formalmente cessate nel 2007) e nel 1975 i Comprensori (soppressi già nel 1993). Ha invece provveduto in tutta autonomia all’istituzione nel 2001 di quattro nuove province, che sino alla loro cancellazione in seguito a referendum abrogativo, nel 2012, sono state percepite, e talora non a torto, soprattutto come strumento per appagare le esigenze di autopromozione delle élites politiche locali piuttosto che a soddisfare le istanze di autonomia e di valorizzazione dei territori. La loro vicenda è stata comunque un fattore di ulteriore confusione e frustrazione nel quadro dei rapporti tra Regione ed enti locali.
Scenari nuovi per i rapporti tra Stato, Regione ed enti locali sono stati aperti anche in Sardegna dalla riforma del Titolo V della Costituzione (L. Cost. n. 3 del 18 ottobre 2001), che ha riconosciuto la pari dignità costituzionale di Stato, Regioni, Comuni, Province e Città metropolitane determinando condizioni più favorevoli per il potenziamento delle autonomie locali, in piena coerenza con l’art. 5 della Costituzione. Sul solco di questa riforma costituzionale la recente legge «Delrio» (n. 56 del 7 aprile 2014) ha dettato nuove «Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni», offrendo anche alla Regione Sardegna la buona occasione per ridisegnare la governance territoriale dell’isola.
Il Governo regionale ha saputo coglierla? Nel gennaio 2016 la Giunta Pigliaru ha in effetti fatto approvare la legge sul «Riordino del sistema delle autonomie locali della Sardegna», che ha però offerto il fianco a molte e fondate critiche. Tra le principali: l’istituzione della Città metropolitana di Cagliari determinerebbe un ulteriore potenziamento dell’unica area che in Sardegna ha conservato un importante tessuto industriale e che detiene, con Cagliari, le principali funzioni direttive, mentre il restante territorio regionale, retto da commissari, è da sei anni senza neppure una rappresentanza politica; la provincia del Sud-Sardegna, ricavata per sottrazione della Città metropolitana dalle precedenti province di Cagliari, Medio Campidano e Carbonia-Iglesias, sarebbe un monstruum; l’adozione di parametri meramente statistici per l’individuazione delle cosiddette città medie (oltre 30 mila abitanti) sarebbe un non senso, posto che non sono i numeri, ma la storia e le funzioni, a definire identità e centralità territoriali; analogamente neppure la formazione delle Unioni dei Comuni dovrebbe ubbidire a parametri meramente quantitativi (10 mila abitanti e almeno 4 comuni).
Potrei continuare, ma non serve, perché il principale e sostanziale difetto della legge 176 del 2016 è che, non solo fa poco conto della storia, ma disegna con piglio centralistico una organizzazione del territorio che non è passata per il vaglio di quelle medesime autonomie locali che pretende di riordinare.
E bisogna allora ricordare anche che dagli anni sessanta in poi l’abbandono dell’agricoltura tradizionale, l’emigrazione, la riduzione della natalità, l’invecchiamento della popolazione – fenomeni che taluno ha riassunto nel concetto di «catastrofe antropologica» - hanno via via indebolito il tessuto demografico della gran parte dei centri rurali. Non bastasse ciò si è proceduto, ragionando sempre in termini di numeri, a privarli dei servizi più essenziali, scuole, poste, farmacie, sportelli bancari, stazioni di polizia, giudici di pace, presidi sanitari, spingendone molti sul limite della sopravvivenza.
È un processo che non possiamo accettare perché i nostri paesi, per quanto minuscoli, sono sempre depositi di civiltà, riserve preziose di tradizioni e di valori, e come tali rappresentano un’estrema linea di difesa contro le tendenze, implicite nella globalizzazione, a omologare tutte le società e culture.
È chiaro che lo sforzo di sottrarre i territori più deboli a un destino di marginalità implica l’adozione di una logica di sistema, e quindi anche una possibile revisione delle trame territoriali, con la definizione di nuove identità d’area, senza mai prescindere, però, dalle eredità storiche e dal punto di vista delle comunità interessate.
Specialità e federalismo
È a questo scenario che dobbiamo guardare quando rilanciamo l’idea di una organizzazione federale dello Stato italiano e dell’Unione europea.
Negli ultimi due decenni si è proposta in Sardegna una tendenza politica che si autodefinisce «sovranista». Si tratta di una versione aggiornata di quel «neosardismo» che tra gli anni settanta e novanta del Novecento aveva inoculato in Sardegna il germe dell’indipendentismo, ma che aveva anche sollevato i temi dell’identità etnica e culturale dei sardi, facendo leva specialmente sulla questione della lingua. L’approvazione nel 1997 della legge per la «promozione e la valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna» può ben essere ascritta a suo merito.
Per chi si propone di rifondare i temi dell’autonomia e del federalismo disponendosi sul solco dei Lussu, Laconi, Dessanay, Cardia, Satta, e dello stesso sardista Mario Melis, la prospettiva di costruzione di uno Stato sardo indipendente è comunque fuori orizzonte. Come riteneva anche il più eminente esponente del neo-sardismo, Antonello Satta, che era un convinto federalista e che sin dagli anni settanta aveva contestato al «separatismo isolazionista» di essere rimasto fermo ad una «concezione ottocentesca della nazione-stato», inconsapevole della «crisi dei grandi sistemi economici, dei grandi sistemi ideologici, delle grandi unità statali».
Per noi, giovani e vecchi millennials, trascinati nel turbine della globalizzazione, queste parole devono restare memorabili, perché un mini-Stato sardo sarebbe inevitabilmente preda delle forze oscure del capitalismo sregolato e canaglia. E dovrebbe rammentarle anche la nostra Assemblea regionale, che da qualche tempo «occhieggia» agli indipendentismi europei.
Il federalismo sta invece tutto dentro la nostra storia, come mostrerà l’intervento di Italo Birocchi, e dobbiamo perciò riprendere a parlarne come di un obiettivo politico, per quanto realizzabile soltanto in un quadro di revisione costituzionale della forma-stato italiana. Questo problema i sovranisti neppure se lo pongono perché il livello del federalismo italiano lo saltano a piè pari per disporsi ipso facto in seno ai futuri Stati Uniti d’Europa, che non sono peraltro dietro l’angolo.
Ma se la costruzione federale non è certo dietro l’angolo, il federalismo è comunque già nella storia dell’Europa, a partire almeno dal Manifesto di Ventotene, redatto nel 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, su premesse teoriche gettate soprattutto da Emilio Lussu e Silvio Trentin.
Se sinora è purtroppo fallito il tentativo di arrivare a un trattato costituzionale dell’Unione europea, il Trattato di Lisbona del 2009 ha tuttavia rafforzato nell’Unione il principio democratico e la tutela dei diritti fondamentali enunciati nel 2000 dalla Carta di Nizza.
Sul percorso successivo dell’integrazione politica europea hanno pesato fortemente le difficoltà di amalgama civile e culturale con i paesi già comunisti (accolti nell’Unione nel 2004) e l’incapacità di dare una risposta unitaria al problema dell’immigrazione extracomunitaria. Un’ulteriore erosione della solidarietà politica comunitaria è quindi venuta dal distacco della Gran Bretagna e dalle pulsioni xenofobe e scioviniste di alcuni paesi e specialmente dell’Ungheria di Orbán.
Un altro elemento critico è rappresentato dal fatto che quella «associazione di Stati» che è oggi l’Unione europea (la definizione è della Corte costituzionale tedesca) ha espresso il massimo potenziale di coesione sul versante economico, e non senza contraddizioni. Le politiche economiche dell’Unione sono state infatti caratterizzate da un neoliberismo ibrido, che lascia mano libera alle forze del mercato e allo stesso tempo pone dei freni alle produzioni nazionali, con la conseguenza in entrambi i casi di condizionare l’esercizio della democrazia e dei diritti civili nei paesi membri. E questo quando né le istituzioni comunitarie, e tanto meno gli estemporanei accordi tra i governi più influenti, sono stati in grado di definire linee e indirizzi politici unitari sulla scena internazionale.
Il centralismo continua inoltre a prevalere in tutti gli Stati membri, poco propensi a far valere il principio di sussidiarietà nel loro rapporto con le autonomie regionali e locali, nonostante quanto previsto dal Trattato di Amsterdam del 1997 (art. 1, tit. I).
Queste notazioni critiche non intendono sminuire il ruolo fondamentale che l’Unione europea ha sinora svolto nel promuovere lo sviluppo economico e la stabilità monetaria, la preservazione della pace, l’affermazione dei diritti di cittadinanza, la costruzione di un’identità europea permeata di valori umanistici e solidali.
Il problema maggiore per il futuro resta quello politico e costituzionale perché soltanto un’ effettiva articolazione verticale dei poteri tra i diversi soggetti costituenti l’Unione europea – stati, regioni, città, autonomie locali – può mettere la costruzione politica europea sulla strada di una Federazione democratica di Stati. Il conseguimento di questo obiettivo non è scontato, per la molteplicità e complessità dei fattori in gioco, ma non per questo il federalismo cessa di essere per l’Europa quell’orizzonte di valore democratico e civile che fu genialmente prospettato dal Manifesto di Ventotene.
Pratiche federaliste e nuova carta autonomistica e federalista
Noi continuiamo dunque a pensare, sulla traccia della grande tradizione federalista italiana ed europea e facendo tesoro anche della tradizione federalista sarda (da Giovanni Battista Tuveri ad Antonello Satta), che il federalismo resti un importante progetto politico su entrambi i livelli della sua costruzione, quello italiano e quello europeo. Il tema è ovviamente molto complesso, ma non può essere eluso. Del resto la questione della riforma costituzionale in senso federale della nostra Repubblica fu già al centro del dibattito politico e culturale alla fine degli anni novanta. Sulla materia fiscale emerse però netta la contrapposizione – a conferma che il federalismo di per sé, come diceva Lussu, non è né un’impostazione di sinistra né un’impostazione di destra – fra il punto di vista leghista, secondo cui ogni territorio doveva tenersi il suo gettito fiscale, e il punto di vista ulivista, secondo cui la redistribuzione del gettito fiscale complessivo tra i territori restava necessaria per garantire a tutti i cittadini un accesso paritario ai diritti essenziali. I tentativi di riforma costituzionale in senso federale ebbero perciò allora un esito insoddisfacente, con un successivo rilancio del neocentralismo.
In questo quadro il nostro compito più immediato è quello di vedere se, a partire dal lavoro di ridefinizione della specialità dello Statuto sardo consentito dalla riforma del Titolo V della Costituzione (ma su questo tema rinvio all’intervento di Gianmario Demuro), non sia anche possibile mettere in atto delle «pratiche federaliste», e cioè azioni e iniziative politiche di segno autonomistico, partecipate dalla popolazione, capaci di portare il confronto con lo Stato sino a quel limite oltre il quale apparirà necessaria la ridefinizione della sua forma costituzionale.
Nonostante le aspettative riposte nella citata riforma del Titolo V , le iniziative di riscrittura per via legislativa dello Statuto sardo non sono sinora andate a buon fine. Ricordo che la promulgazione della «Legge statutaria» fatta approvare nel 2008 dalla Giunta Soru e l’istituzione nel 2006, sempre con legge regionale, della «Consulta per la sovranità del popolo sardo» sono state entrambe annullate dalla Corte Costituzionale. La strada della riforma dello Statuto per via legislativa è oggi resa anche più impervia dalla ripresa del centralismo statale e dalle tensioni indotte nell’Unione europea dalle pulsioni centrifughe.
È ben difficile, dunque, che la nuova «carta autonomistica e federalista» possa essere il risultato, almeno in tempi brevi, di una iniziativa legislativa. Essa potrà, piuttosto, scaturire sostantivamente – e cioè come prodotto in divenire – parte dall’attività di confronto e negoziazione politica della Regione con lo Stato, parte, soprattutto, da momenti di mobilitazione sociale e territoriale. Per questa via sarà anche possibile raccogliere in un progetto d’assieme e unitario l’intera e sinora frammentata materia del contenzioso della Regione (ma in questo caso direi del popolo sardo) con lo Stato: l’adeguazione del sistema scolastico regionale alle esigenze del territorio e allo specifico etnico, linguistico e storico della popolazione; la continuità territoriale; il riconoscimento, soprattutto in sede europea, di compensazioni per via fiscale degli svantaggi che derivano strutturalmente alle imprese dalla insularità (come già avviene per le isole atlantiche); il federalismo fiscale, in chiave solidale nel quadro nazionale e con particolare attenzione per le esigenze finanziarie di Comuni e Province nel quadro locale; la preservazione dei valori naturalistici e paesaggistici dell’isola, senza ignorare le esigenze di sviluppo dei territori; la riduzione sostanziale dell’ipoteca militare sull’isola; la pressione sulla Regione perché pratichi principi autonomistici e federalisti nei confronti dei comuni e dei territori.
Ma sotto il profilo progettuale si deve andare anche oltre. Il neocentralismo ha subito in Italia una pesante sconfitta nel referendum costituzionale del 2016, e questo evento ha creato a nostro avviso le condizioni per riproporre il progetto federalista attraverso un disegno di legge costituzionale, da elaborare con i territori e da presentare con iniziativa popolare.
È una prospettiva irrealistica? Non crediamo, perché è comunque necessario tracciarsi un orizzonte ideale e politico, che per diventare realistico impone il massimo impegno soprattutto su due fronti: la formazione e diffusione di una cultura autonomistica ricca di consapevolezze storiche e sostanziata di valori civili e umanistici; la chiamata in causa delle autonomie locali come principale soggetto e protagonista della rifondazione su base federale della nostra autonomia.
Ghilarza 28 aprile 2018