Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
Quella che chiamiamo globalizzazione non è, in sé, un fenomeno negativo, perché non sono certamente tali l’unificazione dei mercati nazionali e regionali e lo sviluppo delle tecnologie digitali e informatiche. Gli effetti degeneri della globalizzazione, quali sono le privatizzazioni a oltranza, l’anarchia dei mercati, le pulsioni protezionistiche, la prevalenza dell’economia finanziaria sull’economia reale, le sacche sempre più estese di economia canaglia, derivano per la gran parte dall’impotenza (che molto spesso è compiacenza) dei governi nazionali di fronte alle strategie delle imprese globali e dalla mancanza di un «governo mondiale» delle attività economiche. Questo anche perché le istituzioni create nel 1944 dagli Accordi di Bretton Woods, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Internazionale del Commercio sono divenute man mano strumento e longa manus degli interessi delle economie più sviluppate. Interessi che hanno così continuato a gravare, in forme nuove ma sempre coloniali, sulle economie dei paesi meno sviluppati, soprattutto in Africa. Se «la servitù e la colonizzazione hanno contribuito a distruggerci dall’esterno, a uccidere la fiducia in noi stessi – ha scritto Aminata Traorè nel suo splendido L’immaginario violato – la decolonizzazione non ha permesso che ci ricostruissimo all’interno e dall’interno».
La dinamica dualistica sulla scala mondiale dell’economia di mercato, che nei paesi più forti ha prodotto (almeno sinora) sviluppo, ricchezza e benessere e nei paesi più deboli, con l’eccezione della Cina e delle cosiddette tigri asiatiche sottosviluppo, miseria e disagio, è al centro di una letteratura ormai sterminata. Mi limito pertanto a richiamare, tra le opere più aggiornate sul tema della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza mondiale, la grande opera di Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo che, tra l’altro, mostra come nei paesi più ricchi (i magnifici del G7) il reddito procapite è di 30 mila euro l’anno, mentre nei paesi dell’Africa sub-sahariana e dell’India è attorno ai duemila euro, quindici volte inferiore.
L’altra e non meno grave conseguenza di quello che Susan George, in un suo celebre libro, ha definito «mal sviluppo», è l’offesa arrecata all’ambiente naturale, venuta soltanto recentemente al centro della preoccupazione generale (o “quasi” generale per il negazionismo di Trump e altri) soprattutto per il cambiamento climatico, contro il quale è in atto la grande mobilitazione giovanile promossa da Greta Thumberg. Ma l’attentato alla vita della natura non riguarda soltanto il riscaldamento globale per le emissioni di anidride carbonica, perché ha numerosi altri aspetti: l’impoverimento dei suoli per il loro sfruttamento monoculturale, specie da parte di società multinazionali, la riduzione della biodiversità, l’inquinamento dei fiumi e delle falde acquifere, la plastificazione di mari e laghi, e tanti altri. È come se lo sviluppo economico si fosse capovolto nel suo opposto: non per la vita e il benessere dell’uomo, ma contro la sua sopravvivenza, che è inscindibilmente legata alla vita della natura.
La presunzione di dominio dell’uomo sulla natura – come ha osservato Naomi Klein – ha purtroppo radici profonde nella cultura occidentale soprattutto a partire dalla rivoluzione scientifica. Per gli amanti delle buone citazioni richiamo un famoso saggio del grande filosofo-scienziato inglese Francesco Bacone, Il parto mascolino del tempo (1603), dove si sostiene che la scienza, come la caccia, è un’attività tutta e gelosamente maschile, mentre sarebbe femmina, e oggetto appunto di dominio maschile, la natura. Questa polarità maschio/femmina, scienza/natura ci fa comprendere meglio perché in India il movimento ecologista, insorto dapprima per contrastare la cosiddetta «rivoluzione verde», e cioè l’espansione industrialista e monocolturale dell’agricoltura, si sia legato sin da principio al movimento femminista, come risulta dagli scritti di Vandana Shiva.
L’insostenibilità sulla scala mondiale di queste due conseguenze negative più generali dell’attuale modello di sviluppo economico - la disuguaglianza nella condizione delle persone e dei territori e la «morte della natura» - ha fatto emergere una prospettiva sempre più critica nei suoi confronti. Una critica che non ha esitato a entrare nel cuore dei principali postulati della scienza economica codificata e convenzionale, indirizzandosi con sempre maggiore consapevolezza alla ricerca dei postulati di una nuova concezione o paradigma dell’economia.
Il punto di partenza di questa critica, umanistica ed ecologica, della teoria economica dominante – quella neoclassica, risalente alla cosiddetta rivoluzione marginalista della seconda metà dell’Ottocento – è la concezione del lavoro e della natura che sta alla sua base e che ascende ad Adam Smith, il fondatore dell’economia politica o classica. Questa concezione muove da un doppio riduzionismo: riduzione del lavoro posto alla base del valore di scambio dei beni prodotti a lavoro generico, a erogazione di mera energia fisica; riduzione della natura a semplice materia, o al più a macchina. Da un lato il lavoro operaio è depurato dei suoi contenuti di abilità, competenza e intelligenza, dall’altro la natura è privata di ogni vita propria e trasformata in deposito inerte di risorse cui attingere senza limiti. Tutto ciò sarà ben evidente negli sviluppi fordisti dell’industria otto-novecentesca – ricordo in merito le riflessioni di Gramsci - che ridurranno tanto l’operaio quanto la natura a «maschere del capitalismo», come è stato detto, e cioè a costruzioni d’artificio capaci di nascondere quella realtà viva che continuano ad essere.
Vittime solidali dello sguardo avido e incomprensivo del capitalismo, lavoro e natura possono riscattarsi dal riduzionismo economico soltanto nel quadro di un nuovo paradigma politico e scientifico, che valuti in una nuova luce il contributo produttivo di entrambi: del lavoro in quanto prestazione umana complessa (e intelligente); della natura in quanto realtà vitale e sempre cooperante alla produzione della ricchezza.
Se si guarda al lavoro, e non al capitale, come principale fattore produttivo, come perno della produzione tanto di valore quanto di ricchezza reale, gli investimenti nell’istruzione e nella formazione delle competenze appaiono essere i più importanti e strategici. Al riguardo Thomas Piketty ha dimostrato, sul terreno sia storico sia economico-politico, che il principale fattore di riduzione delle disuguaglianze sociali e territoriali è proprio la diffusione delle conoscenze e dei saperi.
D’altro canto la rivalutazione della natura come produttrice anche autonoma di valore e di ricchezza ha posto all’ordine del giorno della teoria e della politica economica un sistema produttivo che agisca rispetto a essa, in ogni ambito, in modo rigenerativo e non «estrattivista», come ha scritto Naomi Klein. «La sintesi di natura ed economia diventa la questione chiave – ha scritto a sua volta Hans Immler -- della riorganizzazione ecologica della società attuale». Per dire che l’intero sistema di produzione di beni e servizi deve essere trasformato e reso compatibile con il rispetto della natura e la sopravvivenza del pianeta. E intanto l’economia industriale deve cominciare a riqualificarsi in senso ecologico mettendo rapidamente in atto una grandiosa strategia di risanamento dei danni già arrecati all’ambiente naturale.
La critica culturale ed ecologica dello sviluppo capitalistico ha avuto un esito più radicale nel concetto di «decrescita felice», introdotto nella letteratura economica e sociologica da Nicholas Geogescu–Roegen e da Serge Latouche. L’assunto principale di questi due economisti è «l’impossibilità di una crescita infinita in un mondo finito», un’impossibilità che svuoterebbe di significato l’idea stessa di sviluppo, in tutte le sue declinazioni, non esclusa quella di sviluppo sostenibile. L’unica prospettiva possibile sarebbe allora quella della decrescita, di cui è stato specialmente Latouche a esplorare le condizioni di realizzazione.
Ma è proprio in questa esplorazione che il pensiero di Latouche, per quanto fondato su una critica largamente condivisibile dello sviluppo nell’economia globalizzata, ispirato da un afflato utopico e sorretto da una narrazione suggestiva, manifesta tutti i suoi limiti progettuali. La sua idea di una «società conviviale», derivata da Ivan Illich, può reggersi infatti soltanto in una dimensione di economia e società chiusa o autarchica (di esplicita ascendenza aristotelica), una società che dovrebbe avere una propria moneta, praticare un «saldo protezionismo» e trasformare il lavoro in attività intermittente. Non solo, ma Latouche elogia le agenzie di «lavoro interinale» - cambiare spesso attività sarebbe bello e sano - e stigmatizza l’ossessione della sinistra di salvare l’occupazione costruendo scuole e ospedali. Scuole e ospedali, si badi, non caserme e galere.
Un’altra concezione della scienza economica ufficiale oggi battuta in breccia è quella dell’«homo oeconomicus», e cioè di un individuo che sarebbe mosso soltanto dall’interesse egoistico. Anche questa è una concezione che ha radici profonde nel pensiero occidentale, teorizzata specialmente, a metà Seicento, dal massimo pensatore politico dell’età moderna, Thomas Hobbes, che ha rappresentato l’uomo come naturalmente egoista, in costante e feroce competizione con i suoi simili.
I fondatori dell’economia classica (Smith, Ricardo, Malthus) hanno, in verità, recepito cum grano salis questa rappresentazione hobbesiana dell’uomo come individuo egoista, ma essa è stata poi fatta propria in toto dagli economisti neoclassici (Walras, Jevons, Menger), approdando infine alla definizione cardinale di economia proposta da Lionell Robbins, secondo cui essa sarebbe la scienza «che studia la condotta umana [leggi:dell’individuo] come una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili a usi alternativi». Fatto sta, però, che tale definizione può stabilire, tra scopi e mezzi scarsi, una relazione puramente logico-formale soltanto perché, appunto, l’agente economico è assunto come un atomo individualista, a prescindere da ogni caratterizzazione di tempo e di spazio, di contesto e di luogo, in definitiva da ogni appartenenza e relazione sociale. Un postulato già criticato diversi decenni fa dal filosofo ed economista ungherese Karl Polanyi.
Per arrivare a simile assunzione teorica la scienza economica ha dovuto rompere ogni connessione con l’etica (il bene comune), il diritto (la giustizia) e la politica (il governo della società), scienze nel cui seno è nata - Adam Smith, ricordo, insegnava filosofia morale a Glasgow -, per collocarsi in una sfera di piena autonomia disciplinare e quindi anche di non responsabilità etica, giuridica e politica.
L’economista che ha contestato più a fondo e rigorosamente l’idea che il concreto comportamento economico possa essere ricondotto a un individuo che persegue esclusivamente il proprio interesse è stato Amartya Sen. In un mirabile saggio su Etica ed economia, questo grande economista indiano (premio Nobel nel 1998) ha trovato del tutto straordinario e in fondo incomprensibile il fatto che l’economia abbia potuto caratterizzare «in termini così ristretti», deprimenti e desolanti la «motivazione umana». A suo avviso la «facoltà di agire della persona», se effettivamente libera, non oppressa e condizionata dal bisogno, è invece motivata e orientata anche dai valori etici, giuridici e politici, e non solo dall’interesse e dalla ricerca del benessere. Una teoria economica che prescinda da ciò è una teoria povera, non in grado di dare una risposta alle grandi questioni dell’equità sociale, della cittadinanza e della partecipazione attiva alle decisioni politiche. E neppure si può lasciare al meccanismo del mercato il compito di rimediare alla disuguaglianza sociale, ad esempio con una distribuzione equa dei servizi scolastici e sanitari. Da qui anche la critica di Sen del trattato di Maastricht, per aver privilegiato le condizioni monetarie e finanziarie dell’Unione europea e trascurato «gli obblighi sociali»; obblighi che, assieme alle «libertà fondamentali delle popolazioni», sono all’origine della stessa costruzione comunitaria.
Il richiamo di Sen al valore anche economico della partecipazione democratica alle scelte politiche ci porta al tema del ruolo dello Stato in economia. La tradizione liberale e liberista ha teso sempre a minimizzare questo ruolo, con un riferimento ad Adam Smith che ancora una volta non è del tutto pertinente. Se è vero, infatti, che per il fondatore dell’economia politica il mercato si autoregola (secondo la celebre metafora della «mano invisibile»), lo Stato resta comunque per lui garante della «giustizia».
Fatto sta che, anche a prescindere da questo riferimento di principio, il rapporto dello Stato con l’economia nella realtà storica è stato sempre forte, specialmente dopo la chiusura della brevissima stagione di euforia liberista (due tre decenni) seguita all’abolizione nel 1846, in Inghilterra, delle Corn Laws, le leggi protezioniste del grano. Sappiamo bene che gli statalismi in economia assumeranno in seguito forme anche estreme e autoritarie, come nei regimi socialisti e fascisti. Nondimeno è sempre all’interventismo statale che si deve, a partire dal New Deal roosveltiano, la ripresa dell’economia occidentale dai disastri arrecati dai due conflitti mondiali. E ricordiamo anche che negli anni cinquanta, sessanta e settanta del Novecento (i trente glorieuses, come dicono i francesi) la nazionalizzazione delle industrie strategiche nei settori dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni contribuiva fortemente alla grande crescita economica registrata allora in Europa occidentale, e specialmente in Germania, Italia e Francia.
Dal biennio 1979-1980 ha preso avvio, come sappiamo, un nuovo processo di neoliberismo economico, che negli Stati Uniti e nel Regno Unito ha assunto, con Ronald Reagan e Margaret Tatcher, il profilo alquanto sgradevole di una «rivoluzione conservatrice», della quale Donald Trump e Boris Johnson possono ben considerarsi gli interpreti più conseguenti. Per effetto di questa nuova ondata liberista – che l’Unione europea ha secondato soltanto in parte – si è pure verificato un imponente processo di trasferimento della ricchezza pubblica verso la ricchezza privata. Il caso in merito più eclatante – come ha mostrato Thomas Piketty – è proprio quello dell’Italia, dove tra il 1970 e il 2010 la ricchezza pubblica è diminuita dell’equivalente di un’annualità di reddito nazionale, mentre i patrimoni privati si sono quasi triplicati, passando da due annualità e mezzo a ben sette annualità del reddito nazionale. Ed era inevitabile che questa espansione della ricchezza privata a danno di quella pubblica non producesse un beneficio generale, ma un incremento ulteriore della disuguaglianza.
Come Sen, anche Piketty ritiene che non ci si possa attendere nulla di buono dal funzionamento autonomo dei meccanismi del mercato e che siano soltanto le istituzioni e le politiche pubbliche a poter perseguire l’obiettivo di «una società giusta», nel «quadro di uno Stato di diritto, in cui le regole siano prestabilite, applicabili a tutti e oggetto di dibattito democratico». Piketty non è perciò meno avverso di Sen all’idea di uno Stato minimale, responsabile soltanto della legalità, dell’ordine e di poco altro.
A questo punto mi provo a riassumere, evidenziandoli, i principi di un nuovo paradigma economico, quale va emergendo dalla critica, umanistica ed ecologica, del paradigma oggi dominante. L’economia: 1 deve avere come fine l’uomo e non il capitale; 2 deve considerare il lavoro come espressione di facoltà ideative e creative; 3 non può prescindere dai diritti di libertà, dai valori etici e dagli obblighi sociali; 4 non può porsi fuori dello stato di diritto, né prescindere dalla volontà democratica espressa dai cittadini; 5 deve cooperare e non confliggere con la natura.
Questa visione nuova dell’economia non è un libro dei sogni, come la teoria della «decrescita felice», perché segnala piuttosto un orizzonte e traccia un campo di possibilità. Un campo di possibilità entro il quale, peraltro, si muovono già da tempo, molteplici pratiche ed esperienze di economia alternativa, che qui posso richiamare soltanto molto sommariamente: l’attivazione di fonti di energia rinnovabile, l’economia circolare, la green economy, le forme di agricoltura neo-contadina (in Sud America la cosiddetta «via campesina») che cercano di sottrarsi al dominio delle catene alimentari globali, e via seguendo.
Credo infine opportuno un riferimento, per quanto rapido, a due esperienze italiane di grande rilievo: l’esperienza dei distretti industriali e la Strategia nazionale delle zone interne, che hanno portato sul terreno della programmazione territoriale una concezione dello sviluppo economico in qualche misura nuova, almeno nell’elaborazione teorica di Giacomo Becattini e di Fabrizio Barca.
La Strategia nazionale delle zone interne s’innesta concettualmente, nell’esperienza dei distretti per l’assunto fondamentale che la ispira, e cioè che lo spazio geografico non è «un semplice contenitore fisico-metrico», bensì una costruzione storica a base relazionale in cui cultura, tradizioni, appartenenze e coscienza collettiva giocano un ruolo fondamentale per lo stesso sviluppo economico, oltre che per la vita e il benessere delle persone che vi risiedono. Queste “potenzialità di luogo” non possono però esprimersi in un territorio al quale vengono sottratti tutti quei servizi che costituiscono il contenuto concreto del diritto di cittadinanza. La Strategia nazionale delle zone interne tenderebbe, pertanto, a rovesciare la logica economicistica che considera i servizi di cittadinanza una variabile dipendente dal livello di sviluppo, per considerarne invece il godimento, da parte di tutti i cittadini a prescindere dal reddito e dall’attività, quale condizione sine qua non per il ripopolamento e lo sviluppo territoriale.
Questo ancora soltanto in teoria, però, perché purtroppo la SNAI sembra essersi incagliata nella sua stessa costruzione, troppo macchinosa, come ben mostra il caso della Sardegna, dove nessuna delle due aree da essa interessate – l’Alta Marmilla e il Mandrolisai-Gennargentu – ha già un programma definitivamente approvato, finanziato e operativo.
Oggi ci occuperemo del Gerrei, e in merito consentitemi una sola osservazione preliminare: la sua popolazione è passata dalle 7935 unità del 1961 alle 4400 attuali, con una diminuzione del 45%. La popolazione di oggi è però inferiore anche a quella di due secoli fa, perché nel 1821 era di 4615 unità. Avrà perciò qualche significato constatare che un’economia agro-pastorale pressoché primitiva potesse sostenere in questo territorio una popolazione persino superiore a quella consentita dalla odierna società iper-industriale e iper-tecnologica.
Ma siamo appunto qui per capire perché
Armungia, 28 settembre 2019.