Populismo vs costituzionalismo: la sfida per l’Europa federale. - Gian Mario Demuro
Le ultime settimane hanno costruito la scena per la disputa teatrale tra due poli del tutto contrapposti: populismo vs costituzionalismo, stato di diritto vs democrazia autoritaria, democrazia illiberale vs democrazia parlamentare. Coppie concettuali che si fronteggiano in una battaglia finale per la democrazia. È in atto il tentativo a far credere che i sostenitori della democrazia liberale siano complici di elites che votano contro il popolo che rappresentano; mentre le forze populiste e illiberali difendono un popolo non rappresentato dalle stesse elites. Da questo punto di vista la reazione che in Ungheria ha seguito il voto del Parlamento europeo è sintetizzata dalla dichiarazione di Orbán: il Parlamento europeo ha votato contro il popolo ungherese. Un voto quello europeo che è stato descritto, in maggioranza, come il voto «delle forze che favoriscono l'immigrazione», «organizzato e gestito dagli uomini di Soros, una vendetta per la politica anti-migratoria del governo ungherese».
Si prospetta un clima pessimo in vista delle prossime elezioni europee che appaiono sempre più polarizzate sulla condivisione o sul rifiuto dei valori europei. Che sono tuttavia i valori che dovrebbero essere condivisi da tutti gli Stati. I valori scritti nell’articolo 2 del Trattato sull’Unione (e mai, sino ad oggi, oggetto di un voto di censura del Parlamento) spaziano dalla democrazia costituzionale allo stato di diritto, dalla separazione dei poteri al rispetto dei diritti fondamentali. In questi mesi che ci separano dal voto, ci auguriamo che i partiti e le coalizioni che si presenteranno alle europee abbiano il coraggio di chiedere un voto per allontanare il rischio che le nostre democrazie liberali si trasformino in democrazie illiberali.
Che cosa si intende per democrazie illiberali? Sono quelle democrazie secondo cui solamente la maggioranza sa ciò che è giusto per un paese; sono quelle realtà politiche che limitano la libertà di stampa e la manifestazione del pensiero; sono quelle istituzioni che eliminano i contrappesi esercitati dai poteri autonomi, dalla magistratura alle banche centrali; sono quelle maggioranze che cambiano le costituzioni per mantenere saldo il potere illiberale. Non sono democrazie, ma l’opposto dell’idea stessa di democrazia. Perciò lo sforzo maggiore da fare, da parte di tutti e non solamente dei partiti, sarà accettare il fatto che le democrazie liberali vivono nei vincoli del riconoscimento di valori che sono universali o, almeno per gli europei, sovranazionali. Si tratta di ripensare un tema senza dubbio fondamentale, come ricordato da Hanna Harendt in La vita activa: che il riconoscimento dell’altro è la base della vita politica. Ma possiamo anche riprendere l’idea che le origini della democrazia sono riconducibili alla autonomia personale: siamo democratici perché siamo liberi.
Da questo punto di vista l’Europa dovrebbe riportare la discussione sul fatto che la democrazia inizia nella trasparenza dell’autogoverno di piccole comunità, mentre il dibattito attuale sembra riportarci alle idee di Max Weber in Economia e società. La città, secondo cui il modello perfetto di democrazia è quello della città-stato, perché sono i confini a definire la democrazia.
Oggi dobbiamo anche tornare a Tocqueville per reagire alla tirannia della maggioranza e rinforzare l’idea che la democrazia esiste solamente se è aperta e riconosce le minoranze. Oltre dieci anni di crisi finanziaria sembrano facilitare la restaurazione del nazionalismo e del protezionismo in economia, ma se vogliamo difendere la democrazia rappresentativa occorre ripartire da una democrazia di prossimità, quella iscritta nel concetto di autonomia responsabile. E dobbiamo, anzitutto, ripartire da una «etica della città aperta», come la chiama Richard Sennet in Costruire e abitare, secondo la quale il «vivere uno tra molti» permette «la ricchezza di significati anziché la chiarezza di significato». La discussione politica sull’Europa deve pertanto ripartire non dal perenne ritorno delle Nazioni, ma dal pluralismo delle città e delle autonomie, dall’assunzione di responsabilità di coloro che si autogovernano. La discussione politica potrà così riprendere forza dalla consapevolezza che la democrazia rappresentativa nasce dalla necessità di prendere decisioni in contesti che siano più ampi di quelli descritti da Aristotele, che considerava come dimensione ideale della democrazia diretta quella di una comunità che consentiva di ascoltare la voce dell’altro in un contesto definito.
Secondo la dottrina dei federalisti all’aumentare della rappresentanza diffusa sul territorio si crea un effetto di argine rispetto al sorgere della dittatura. Aggiunge Yves Mény, nel suo libro su Populismo e democrazia, che «in Italia, l’instaurazione del regionalismo e la riduzione del potere dei prefetti obbedivano alla… logica di evitare che la centralizzazione facilitasse la dittatura». Proprio nella Costituzione italiana troviamo un sistema rappresentativo che favorisce la democrazia e, secondo Mény, «una concezione alternativa del rapporto tra democrazia e territorio: alla concezione di un popolo unificato che si esprime attraverso istituzioni nazionali, titolari esclusive della sovranità e della legittimità, succede un approccio meno dogmatico alla nazione, al potere, alle necessarie diversificazioni e segmentazioni del potere».
Si tratta di una concezione che, partendo dalla democrazia rappresentativa, riconosce che le autonomie storiche sono parte integrante della democrazia repubblicana. La rappresentanza diffusa sul territorio può, pertanto, essere l’antidoto alla concezione fallimentare di un’Europa che si considera unita solamente nell’identificazione statale. La rappresentanza diffusa sul territorio potrà invece portare con sé il valore propriamente europeo, basato sulla differenza e sul riconoscimento anche di comunità politiche che, pur essendo piccole, mantengono una forte coesione. La grande diffidenza verso le macchine di integrazione sovranazionale che sta riportando il dibattito indietro ai primi del Novecento può essere dunque contrastata con la rappresentanza diretta di minoranze nel Parlamento europeo. Minoranze che vivono integrate in contesti nazionali e che possono riprodurre queste virtù integrative in contesti sovranazionali. L’idea della rappresentanza territoriale non è in contraddizione con la rappresentazione di ogni Stato europeo proprio perché l’Europa lascia liberi tutti i Paesi di articolare la propria identità costituzionale. Questa modalità elettiva può aiutarci a portare in Europa l’idea che l’aspirazione universale alla democrazia può essere fondata, in tempi di crisi dei confini nazionali prodotta dalla globalizzazione, su confini non tracciati dagli Stati ma dalla secolare esistenza di comunità autonome.
Sassari, 12 ottobre 2018