Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
Il problema storico dell'Autonomia - Italo Birocchi
Interrogarsi sul problema storico dell’autonomia non è solo una questione che interessa gli studiosi di professione. Riguarda la politica e la cultura, perché significa parlare delle ragioni dell’autonomia, ovvero il presupposto necessario per poter discutere dei suoi modelli e della sua realizzazione. Con un procedimento che è usuale nelle operazioni interpretative, l’immagine dell’autonomia usualmente proposta è quella ricavata dalla realtà odierna, nella sua attuazione (la regione a statuto speciale), considerata come coronamento di un processo che avrebbe proposto a più riprese momenti di emersione di istanze autonomiste. Secondo questo immaginario si risale dunque all’indietro e si pone l’accento su alcuni episodi o fasi emblematiche. Si pensa:
– al sardismo del primo dopoguerra e naturalmente a Lussu, come eponimo di quella stagione;
– all’affiorare di idee critiche e di proposte al tempo della formazione dell’Unità d’Italia (Tuveri, Giuseppe Musio, ecc.);
– alla cacciata dei piemontesi e, di poco successiva, all’epopea antifeudale di Angioy, momenti culminanti del “triennio rivoluzionario sardo” (1793-96), che istituzionalmente cominciò con la proposta di una piattaforma di richieste al re (le “cinque domande”).
Risalendo ancora più indietro, all’epoca del governo spagnolo, si ricorda magari l’insistita rivendicazione, nel Seicento, dell’assegnazione delle cariche ai “naturali” sardi. Si potrebbe continuare, ma possiamo già accorgerci che in questo modo di porre il problema storico dell’autonomia si manifesta una visione a strappi, che semplifica e confonde, banalizza la complessità. Si dimenticano i contesti, si
evoca la storia ma sostanzialmente la si tralascia: fatalmente si scivola nel mito delle “fiammate” (l’epopea angioyana, l’eroismo della Brigata Sassari e il combattentismo, che, s’intende, sono momenti reali ed importanti della nostra storia).
Innanzi tutto conviene ricordare che la Sardegna ha vissuto secondo ordinamenti autonomi (cioè con norme e istituzioni proprie) nella fase medievale dei Giudicati e poi, come Regno di Sardegna, dal Trecento alla metà dell’Ottocento. È un primo dato, che immediatamente porta a un’altra questione, attinente alla collocazione di questa realtà autonoma entro un contesto più ampio, che di volta in volta poté essere l’impero bizantino (da cui formalmente, all’inizio, dipendevano i Giudicati), la corona d’Aragona, la monarchia spagnola e i domini sabaudi: in che rapporto stavano i Giudicati o il Regnum Sardiniae con i sovrani titolari di queste entità ordinamentali più ampie? Secondo un rapporto di subordinazione, oppure “aeque principaliter”, cioè con pari dignità, in una sorta di federazione che faceva capo al monarca e che comprendeva diversi regni territoriali dotati di proprie leggi,
costumanze, istituzioni?
Non c’è e non ci può essere una risposta unica a questi interrogativi. Entra in gioco la storia e dunque occorre considerare gli assetti sociali, i rapporti di forza tra elites e governanti, le ideologie e persino la fede religiosa, che complessivamente influivano sull’esercizio del potere, sull’obbedienza, sulla collocazione (status, ovvero condizione giuridica) degli uomini in questi contesti. Di certo intanto balza evidente che la questione autonomistica non riguarda solo l’involucro istituzionale e normativo. E infatti era ben viva anche al tempo in cui quell’involucro non c’era più, dopo la fusione perfetta con gli Stati sabaudi (1847-48): è, per esempio, al centro del pensiero e dell’azione di Tuveri, Asproni, Lussu.
Il discorso sull’autonomia insomma, non si è mai ristretto solo alla forma istituzionale e alle norme. È implicato nella cultura materiale e ideale dell’isola, nella sua specificità, e perciò ha sempre presupposto conoscenza: del territorio, degli insediamenti umani, delle modalità espressive con cui il popolo vive. È dunque conoscenza dei dati e però anche riflessione sui dati e in definitiva consapevolezza e decisione su come si vuole vivere in quel territorio al quale ci si sente legati per la sua specificità. Chiediamoci perché Angioy, o Matteo Luigi Simon, o Domenico Alberto Azuni – cioè alcuni dei protagonisti del tardo Settecento sardo – o più avanti Lussu, tutti giuristi di formazione e professione, si siano occupati di geografia dell’isola, di viabilità, di economia, persino di flora e fauna. Perché il discorso autonomistico non è pura forma giuridica – fredda, tecnica, geometrica – bensì è discorso umanistico, è sostanza umana: allude non solo “all’avere norme per sé” ma a darsi un complesso di diritto e di istituzioni da sé, aderenti al territorio ed espressi in un insieme articolato di progetti. E qui entra in gioco il ”come” si sta nella vita organizzata: dietro la forma di governo c’è sempre la domanda su quale sia la relazione tra governanti e governati, quali le modalità di esercizio del potere, quali le finalità. Storicamente nelle moderne democrazie e nelle istituzioni autonomistiche
c’è un concetto-chiave che racchiude questi problemi ed è quello di “rappresentanza”: non è però un concetto meramente logico-giuridico e non lo si può staccare dal problema della partecipazione al governo civile. Quell’ insieme di
domande rimandano in definitiva alla politica, che è un modo d’essere storico, a sua volta.
Ne risulta che l’ “autonomia” diventa una categoria sclerotica se la si considera come un involucro e tanto più se la si appiattisce sull’esistente. Storicamente è stata sempre coniugata con i dati di conoscenza, con un atteggiamento critico/dinamico e con la volontà sottostante di costruire un progetto e di esserne protagonisti.
L’autonomia è in primo luogo appropriazione di ciò che ci appartiene (risorse, storia, lingua): appropriazione che non sia egoistica, bensì rispettosa e collettiva, partecipata. Una appropriazione che non tenda a esaurire (o consumare) quelle risorse, bensì a comprenderle per quel che sono e dunque a valorizzarle ed espanderle. È in secondo luogo una espressione di libertà, il cui titolare è la comunità sarda e che si esprime in un profilo negativo (è libera da…) e in un altro positivo (è libera di…). Tutt’altro che riducibile al decentramento, essenzialmentel’autonomia
– è libertà da ogni vincolo che non sia accettato per il bene comune e che sia necessario ai fini del riconoscimento e della coesistenza dei pari diritti altrui;
– è libertà di autogoverno e in particolare di provvedere alla conservazione e sviluppo delle risorse reali, culturali, storiche della Sardegna.
Questa autonomia si risolve dunque in una forma di democrazia: implica la consapevolezza di vivere in un ambiente e in un territorio specifico per civiltà e storia e si propone un programma di conservazione e condivisione delle risorse in una dimensione sociale: uomini e cose (anche le cose!), come protagonisti e non quali oggetti inerti.
Per i suoi caratteri non ha allora niente a che vedere con il passatismo o la separatezza.
Non è passatismo perché non guarda alla storia con nostalgia mitizzandola per avere agio di riproporla attraverso i miti costruiti. La osserva invece con realismo, anche nelle sue tante brutture e sofferenze, nelle vergogne umane di cui è popolata.
La storia è passato e si alimenterebbe una ideologia di conservazione se si pensasse che essa determini il futuro. Ma ciò non toglie che la consapevolezza storica sia fondamentale per appropriarsi delle cose (nel senso prima indicato), per guardare dinamicamente all’ oggi, per progettare. Perciò non ci si può fermare alla formacristallizzata della Regione a statuto speciale e alla sua prassi, che sarebbe appuntopassatismo più che realismo.
Non è separatezza perché oggi più che mai, nella globalizzazione, il modo d’essere degli uomini non può essere pensato come isolato e a sé; le barriere sono illusorie e se fossero innalzate produrrebbero asfissia, oltre a costituire recintidisumani. L’autonomia è storicamente e necessariamente rapporto con altri: mira ad aggregare e non a separare o a separarsi. È stata evocata la forma federalista. Menti illuminate come Cattaneo, come Spinelli, come da noi Lussu – uomini concretissimi, votati a ragionare sperimentalmente – l’hanno propugnata, di solito come frutto di una riflessione nei momenti in cui era forte l’esigenza di costruzione o di ricostruzione: il dopo 1848,e i due dopoguerra. Un approdo, il federalismo, come affermazione della dignità propria, come rispetto dell’altro, del diverso, come forma giuridica del vivere insieme riconoscendosi negli stessi valori di fondo. Autonomia e federalismo
nascono idealmente insieme, si presuppongono, si integrano.
Quei padri del federalismo non sono menti estranee alla Sardegna. Noi non abbiamo le loro energie intellettuali, ma sentiamo vivissima l’esigenza di ripartire, secondo un modello che coinvolga le comunità e le persone, eviti le omologazioni, consenta di orientare i processi, appropriarci delle decisioni, e vivere in pace con tutti. Il progetto per la pace perpetua (1795) di Emanuele Kant – piace ricordare che
fu pubblicato in quella stessa fase storica che espresse anche il triennio rivoluzionario sardo – è un programma tanto visionario quanto ragionevole, è fondato sul principio di eguaglianza intersoggettivo e interstatuale e sfocia in una
prospettazione federalista.
Ghilarza 28 aprile 2018