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Unione Europea ed Eurozona: un connubio difficile - Omar Chessa
Un pò di storia
Nell’anno passato, il 2017, abbiamo festeggiato un sessantennio di integrazione europea, un progetto che infatti prese l’avvio l’avvio nel 1957 col Trattato di Roma, istitutivo della CEE (Comunità Economica Europea). Ma in realtà l’integrazione sovranazionale era iniziata qualche anno prima, col Trattato di Parigi del 1951, istitutivo della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio).
In entrambi i casi l’Italia figurava tra i contraenti originari, ma il fattore veramente propulsivo era il patto tra francesi e tedeschi, due popoli che si erano aspramente combattuti nella I e nella II Guerra mondiale (ma anche nei decenni precedenti: vedi, infatti, il conflitto franco-prussiano). Tra i motivi della contesac’era il carbone e l’acciaio dell’Alsazia, della Lorena e della Ruhr, territori di confine tra la Francia e la Germania. Si decise quindi di mettere in comune la regolazione e gestione dei beni per i quali si era combattuto e nacque così la CECA, l’embrione di un progetto che poi divenne molto ambizioso. Dopo infatti venne la CEE, che ereditò e sviluppò la struttura che era stata messa a punto con la precedente organizzazione internazionale.
Entrambi i Trattati, di Parigi e di Roma, riguardavano la materia dell’economia e del mercato, ma l’esperimento da subito ebbe un significato simbolico e politico-istituzionale, direi “costituzionale”, che certo andava ben oltre l’ambito e le finalità dell’economia. Non si volevano solo allargare i confini del mercato di alcune produzioni per renderli comune a più Stati, ma c’era dietro un’idealità di respiro più ampio, che riguardava anche il futurodella politica e della cultura europea, nonché l’obiettivo di una pace duratura. È noto, ad esempio, che l’istituzione di un’autorità comune per la regolazione della produzione e commercializzazione di materie prime come il carbone e l’acciaio perseguiva anche l’obiettivo di impedire che queste risorse fondamentali fossero usate dalla Germaniaper operazioni segrete di riarmo bellico.
Si voleva, insomma, costruire un futuro che cancellasse le brutture di un passato fatto di contrapposizioni nazionali, di guerre, di negazione dei più elementari principi di civiltà e di rispetto della dignità umana. La seconda guerra mondiale, i milioni di morti, i fascismi europei, l’Olocausto, erano un passato recentissimo, il cui ricordo nel 1951 e nel 1957 era ancora vivo.
Gradualità
Nella visione dei padri fondatori, soprattutto di Robert Schuman e Jean Monnet, la comunanza di interessi realizzata nei commerci e nella produzione economica doveva diventare una piattaforma comune, che avrebbe dovuto servire come base per un’integrazione più profonda, di tipo politico e costituzionale:un’integrazione da realizzarsi, però, gradualmente, pezzo per pezzo, mattone per mattone, senza velleitarie spinte in avanti.
Schuman, infatti, ripeteva spesso: «l’Europa unita non la faremo tutta in una volta, la faremo un passo dopo l’altro, via via che crescerà la solidarietà tra i popoli europei». È impensabile, d’altro canto, che gli assetti istituzionali complessi possano scaturire già compiuti e perfettamente funzionanti nelle loro parti, come Minerva dalla testa di Giove. Ciò vale anche per quelli di tipo costituzionale: quando entra in vigore una nuova costituzione, come è accaduto con la nostra del 1948, poi deve seguire la fase dell’attuazione costituzionale, della realizzazione graduale del progetto, della sperimentazione. E si va avanti solo se tutti o la gran parte dei partecipanti sono convinti che lo si debba fare, solo se si è sufficientemente solidali e ci si fida abbastanza gli uni degli altri.
Lo stesso vale per la costruzione sovranazionale europea. Un esempio può rendere utilmente l’idea. È noto che in alcuni ambiti di intervento comu-nitario la regola è che i governi nazionali decidano a maggioranza, in altri invece all’unanimità. Perché? La ragione è semplice: nei primi ci si fida di più gli uni degli altri, sebbene i soggetti siano sempre gli stessi; negli altri ambiti, invece, si ritiene che non vi sia ancora una comunanza di interessi nazionali abbastanza forte, un livello elevato di solidarietà tra nazioni, e quindi la regola è quella dell’unanimità, ispirata più dalla diffidenza reciproca che non da un particolare afflato democratico. Insomma, la disciplina dei procedimenti decisionali in seno all’UE riflette la gradualità del percorso integrativo e i diversi gradi di solidarietà e fiducia che questa o quella competenza messa in comune registra tra i Paesi partecipanti.
Parabola
Per diversi anni l’aspettativa di Schuman di una solidarietà e fiducia reciproca crescenti pareva soddisfatta. Basti ricordare che circa quindici anni fa la Convenzione di Laeken per il futuro dell’Unione consegnava un testo che recava il titolo di Costituzione per l’Europa. In quegli anni molti – e io tra questi – pensavano che fosse giunto il momento di un salto decisivo di qualità e che l’Europa avesse bisogno di una costituzione unitaria, quasi che l’assetto comunitario fosse già quello di un unico Stato federale europeo.
Del resto, c’erano già molti elementi di federalizzazione nell’ordinamento comunitario: un Parlamento europeo eletto direttamente dai cittadini, un diritto comune europeo che aveva e ha il primato sulle norme legislative nazionali e persino su talune norme costituzionali nazionali (esclusi i c.d. “controlimiti”), un giudice europeo col potere di interpretare questo diritto europeo in modo vincolante per tutti i Paesi membri, la garanzia di un corpus di diritti fondamentali, fatti valere dalla Corte di giustizia nei confronti del diritto comunitario ed elaborati secondo il canone delle «tradi-zioni costituzionali comuni». Constatando tutto questo, in molti sostenevamo che l’UE non fosse un’organizzazione internazionale come le altre e che l’ordinamento europeo fosse qualcosa di molto più di un insieme di norme in-ternazionali stabilite da classici trattati conclusi tra Stati sovrani, quasi avesse già una qualità “costituzionale”, sicché era finalmente giunto il momento di tirare le somme e adottare una Costituzione europea. Poi, com’è noto, non se ne fece nulla, perché alcuni paesi si opposero.
Quello fu il punto più alto del processo integrativo europeo. Da allora siamo entrati nella fase calante, la quota di solidarietà e fiducia reciproca si sta riducendo. L’obiettivo fermo, indiscusso dei Trattati di un “ever closer union”, di un’unione sempre più stretta, è diventato un enorme punto in-terrogativo. E oggi nel 2018 il problema è capire come sia diventato interrogativo un punto che inizialmente era esclamativo, e quali strade abbiamo per uscire dall’impasse.
Tre punti fermi
A mio giudizio, l’analisi di quanto sta accadendo deve muovere da tre punti fermi:
1) la crisi del processo integrativo europeo non è causata dall’affermazione dei movimenti politici populisti e sovranisti, ma è la causa del fatto che queste formazioni politiche stiano riscuotendo larghi margini di consenso (non fanno altro, difatti, che infilarsi nella breccia aperta da questa crisi).
2) Non possiamo partecipare al dibattito accettando la divisione sem-plicistica tra “Europa sì, Europa no”. Non si tratta di difendere l’Europa con-tro chi non la vuole: questa sarebbe una strategia perdente, perché l’attuale situazione ordinamentale presenta obiettivamente dei difetti strutturali, che non possono essere sottaciuti e che ora, a seguito di alcuni eventi particolarmente traumatici, stanno facendo venire molti nodi al pettine. Se vogliamo fare un salto politico di qualità, occorre proporre analisi del fenomeno più complesse, meno semplicistiche. Non è un compito facile, perché la natura stessa del dibattito politico, i toni che esso assume fisiologicamente, induce ad abbracciare la logica degli schieramenti netti e contrapposti, come se dovessimo scegliere di stare o di qui o di là, secondo una visione manichea.
3) Un passo avanti nell’analisi è distinguere tra Unione Europea (UE) ed Eurozona, ossia Unione Monetaria Europea (UME). Il problema dell’UE è l’UME. I valori fondativi dell’Unione Europea, per come ribaditi dal Trattato di Lisbona del 2009 (che, infatti, tra le altre cose afferma la necessità di realizzare un’Unione sociale europea, cioè uno spazio europeo di garanzia effettiva dei diritti sociali) sono da tempo seriamente messi in discussione e compromessi dalle modalità di funzionamento dell’Unione Monetaria Europea, che allontanano l’Europa dal traguardo di una più profonda coesione sociale.
È sul punto 3) che occorre soffermarsi in modo particolare, ossia sui difetti strutturali dell’Eurozona. Ma prima bisogna intendersi su cosa si vuol dire quando si afferma che l’Europa si sta allontanando dal traguardo di una più profonda “coesione sociale”.
I diritti sociali nell’UE e nelle esperienze nazionali
Quando si parla di “coesione sociale” si fa riferimento a un o-biettivo il cui raggiungimento dipende soprattutto dalla garanzia dei diritti so-ciali e dei connessi sistemi di welfare. Ma va tenuto fermo che una cosa è la garanzia dei diritti sociali nella sfera europea, un’altra la garanzia dei diritti sociali nella sfera nazionale interna.
Dico subito, in modo un po’ brutale, che parlare di garanzia dei diritti sociali nella sfera sovranazionale non ha ad oggi molto senso, poiché difetta una precondizione essenziale: la natura statuale dell’UE. Possiamo ancora im-maginare una tutela europea delle libertà classiche e dei diritti civili, ma senza un’unificazione di tipo statale non ci può essere vera garanzia dei diritti politici e men che meno dei diritti sociali. È vero che i diritti politici in parte sono riconosciuti nella dimensione europea:eleggiamo, infatti il Parlamento europeo.Però questo non ha le competenze e un’incidenza politica paragonabile a quella di un parlamento nazionale che operi dentro uno Stato democratico. Quanto ai diritti sociali di prestazione, questi – notoriamente – sono diritti “condizionati”, la cui garanzia richiede l’intervento statale attivo (scuole e università per il diritto all’istruzione, ospedali per il diritto alla salute, politiche fiscali espansive di piena occupazione per il diritto al lavoro, e così via...). E prima ancora occorrono scelte legislative di attuazione, che non sono certo scontate, poiché dipendono anche dalla lotta politica, dagli equilibri di forza e dai programmi delle forze partitiche. Ma se l’UE non è neanche uno Stato, difettano evidentemente tutti questi presupposti.
Ma il dato veramente preoccupante è un altro e può sintetizzarsi con una domanda: posto che nell’ordinamento UE non si possono assicurare i di-ritti sociali, lo stato dei rapporti tra l’Europa e gli Stati che ne fanno parte consente a questi ultimi di conservare i livelli di garanzia sociale di un tempo oppure sta rendendo difficile il mantenimento delle conquiste di welfare del passato?
Credo che la fase acuta di crisi del processo integrativo – tanto acuta da avere innescato ormai quasi un processo disintegrativo – dipenda proprio dalla percezione diffusa, radicata, che l’Europa sia divenuta nemica dei diritti dei più deboli, che non sia una protezione del modello sociale che è stato realizzato dal dopoguerra nelle esperienze nazionali, ma che sia il suo avversario. Questo ha fatto venire meno la fiducia di molte fasce sociali nella costruzione europea. Come si è formata questa percezione? È fondata?
Il nesso storico tra crisi economica e sviluppo dei sistemi di welfare
Si obietta che se c’è la crisi dei sistemi nazionali di welfarela colpa è della crisi economico-finanziaria che in Europa ci portiamo dietro da quasi un decennio. In effetti, come si è scritto, «prima della crisi era abbastanza chiaramente osservabile un processo generale di ibridazione reciproca e almeno parziale convergenza – un movimento certamente lento, ma con un elevato potenziale di trasformazione» (Ferrera).
Tuttavia l’esperienza storica e comparata dimostra che sono proprio le crisi economiche, tanto più se gravi e durature, a generare il rafforzamento dei sistemi di welfare, a imporre una revisione del rapporto tra Stato e mercato, per riequilibrarlo in favore dell’intervento pubblico finalizzato alla redistribuzione e quindi alla correzione della logica distributiva affermata dal mercato (il mercato, infatti, non bisogna mai dimenticarlo, è un criterio di distribuzione delle risorse, di benefici e sacrifici). Del resto, la protezione sociale ha senso soprattutto nei periodi di vacche magre, di compressione strutturale delle attività economiche e di caduta della domanda e del prodotto: i sussidi di disoccupazione, i sostegni al reddito e i redditi di inclusione, la cassa integrazione, gli investimenti pubblici per l’occupazione acquistano senso soprattutto allorquando il sistema economico non riesce a riprendersi da sé e a offrire risposte ai bisogni individuali e collettivi.
Invece constatiamo che la crisi non solo non ha generato queste rea-zioni, ma anzi è diventata dominante la vulgata secondo cui sarebbe proprio la crisi a rendere finanziariamente insostenibile lo Stato sociale: l’adagio comune è “siamo in crisi, non ci sono soldi, e quindi occorre eliminare parte dei programmi di protezione sociale”, mentre in passato si diceva il contrario, ossia “c’è la crisi, molti perdono o non trovano lavoro, e quindi occorre sostenere il loro reddito, realizzare investimenti e incrementare alla bisogna la spesa pubblica”.
Chi ha ragione?
Una comparazione tra USA e Italia
Provo a offrire qualche dato comparato: la spesa pubblica USA nel 2019 avrà un deficit di bilancio del 5,2% rispetto al PIL; e in tutti questi anni si è tenuta a questo livello. Per effetto di questa politica fiscale espansiva ora, negli USA, c’è una situazione di piena occupazione, che non significa ancora attuazione dei diritti sociali, sebbene ne sia la condizione necessaria. È risaputo, infatti, che le politiche macroeconomiche espansive, rivolte al pieno impiego della forza lavoro, hanno un ruolo propulsivo nel processo di attuazione dei diritti sociali. L’esperienza storica dimostra che rafforzano la posizione relativa delle classi lavoratrici, dando un forte impulso politico alla garanzia dei sistemi di welfare. Quando viene meno il timore di perdere il lavoro e di ripiombare nella miseria, non si è più disposti ad accettare qualsiasi condizione di lavoro e qualsiasi salario, ma si conquista la forza sindacale e politica di pretendere una più ampia redistribuzione del prodotto sociale, anche nelle forme di una più intensa garanzia dei diritti sociali di prestazione. Insomma, l’aumento costante dei salari e della sicurezza sociale nei “Trenta anni gloriosi” che seguirono alla II Guerra mondiale non sarebbe stato possibile senza le politiche di pieno impiego.
Ma se la piena occupazione è la condizione necessaria della tutela dei diritti di welfare, tuttavia non ne è pure la condizione suffi-ciente. E difatti, in America al pieno utilizzo della forza lavoro non corrisponde certo un livello adeguato di tutela sociale. D’altronde la politica di deficit spending sinora perseguita deriva più dalla riduzione del carico fiscale che dall’incremento della spesa pubblica sociale, con tutto quel che ne consegue in termini di equità e di sostenibilità futura del modello di sviluppo. L’economista Joseph Stiglitz ha, infatti, dimostrato che le diseguaglianze socio-economiche, la mancata crescita dei salari, il divario crescente, tra ricchi e poveri alla lunga producono recessioni o stagnazioni strutturali, perché non si può pensare che la domanda interna sia stabilmente alimentata solo dai consumi dei ricchi che beneficiano di tagli fiscali.
Ciò detto, rimane però indubbio che comunquele politiche fiscali sta-tunitensi siano espansive, poiché immettono nel circuito economico più risorse di quante ne prelevino con la tassazione. In Italia, invece, succede da tempo il contrario, perché il bilancio pubblico nazionale consegue saldi primari positivi dall’inizio degli anni Novanta, nel senso che la spesa pubblica per beni e servizi è inferiore all’ammontare del gettito fiscale riscosso, sicché i cittadini pagano più imposte di quanto ricevono in cambio come servizi pubblici, pensioni, ecc.È vero che il saldo del settore pubblico è stato complessivamente negativo, cioè in disavanzo. Ma il deficit è dovuto alla spesa per interessi sul debito pubblico: ne discende che ogni anno sottraiamo all’economia nazionale più risorse di quante ne preleviamo, considerato anche il fatto che sino a un paio di anni fa la gran parte dei titoli del nostro debito pubblico era detenuto da investitori stranieri (prevalentemente banche tedesche e francesi), sicché gli interessi che pagavamo non finivano nelle tasche di risparmiatori nazionali e non alimentavano dunque la domanda interna.
Il problema del debito pubblico
E siamo arrivati così alla questione di fondo, ossia ai nodi strut-turali dell’Eurozona. Ma che c’entra l’Unione Monetaria Europea con tutto questo? Può infatti osservarsi che non è la moneta unica, ma le dimensioni del nostro debito pubblico la ragione per cui non possiamo fare quel che occorrerebbe fare, ossia spendere in deficit per sostenere i redditi, l’occupazione e i sistemi di welfare.
In realtà quello tra debito e PIL è il rapporto tra un numeratore e un denominatore: se il PIL cresce,si riduce il debito; se rimane stagnante, il pro-blema si aggrava. La sostenibilità del debito non dipende dalle riduzioni di spesa. Spesso si sente l’invito a tagliare qualche auto blu e qualche privilegio nell’illusione che, così facendo, i conti ritornerebbero apposto. Altri richiedono un intervento più massiccio sulla spesa pubblica. Ma tagliare la spesa significa che le liste di attesa per una prestazione sanitaria si allungano; significa che nelle scuole non c’è più carta, che gli scuolabus non solo arrivano in ritardo, ma non arrivano proprio o s’incendiano per strada perché non si fa più la manutenzione. E in aggiunta a tutto questo il debito non si riduce, ma anzi continua a crescere, come constatiamo da anni: e lo fa perché i tagli di spesa pubblica primaria sono sempre recessivi (a pressione fiscaleinvariata), sicché il PIL non cresce o non cresce significativamente.
Repetita iuvant: la sostenibilità del debito sovrano dipende dalla crescita del prodotto e dalla ripresa di una moderata dinamica inflazionistica (ora siamo praticamente in deflazione). Non voglio fare l’elogio dell’inflazione e sono convinto che l’iper-inflazione sia un disastro. Ma una moderata inflazione è la prova che i salari stanno crescendo e che non stanno perdendo il conflitto distributivo col capitale (è risaputo, infatti, che sono gli aumenti salariali che fanno crescere il prezzo dei prodotti). Peraltro l’inflazione riduce il costo reale del debito (visto che colpisce di più i creditori dei debitori, come faceva presente Keynes).
Dal “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia all’Eurozona
Ma allora qual è la ragione vera che osterebbe all’adozione di politiche espansive keynesiane? Il fatto che siamo nell’Eurozona e cheper finanziare il deficit dobbiamo indebitarci in una moneta che non controlliamo, con tutto quello che ne discende. Controllare l’offerta monetaria equivale, infatti, a poter determinare il tasso di d’interesse sul debito pubblico per governarne la dinamica di crescita, come infatti avveniva fino al 1981, cioè sino al c.d.“divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia”.
Il “divorzio” non fu un evento isolato che riguardò solamente il nostro Paese. Un po’ in tutte le democrazie industriali sviluppate prendeva piedeil principio dell’indipendenza della banca centrale rispetto al potere esecutivo. Prima del “divorzio” la Banca centrale doveva emettere moneta su richiesta del Tesoro, il quale poteva chiedere che i titoli invenduti del debito pubblico venissero acquistati dalla Banca centrale. L’obiettivo non era tanto quello di creare moneta quanto quello di calmierare i tassi di interesse affinché non superassero il livello prescelto dal Governo. In questo modo si assicurava la sostenibilità del debito pubblico, che non per caso sino ai primissimi anni Ottanta non costituiva la preoccupazione di nessuno. Fu dopo il “divorzio” a raggiungere livelli preoccupanti. Basti pensare che negli anni Sessanta il rapporto debito/PIl era ancora al 60%. Raddoppia invece dal 1981 al 1993 toccando la soglia del 119%. La vulgata dominante attribuisce le responsabilità alla “politica spendacciona”, alle pensioni di invalidità, a un sistema di welfare divenuto troppo costoso, etc. Ma va detto che dal 1981 in poi la spesa sociale è rimasta sostanzialmente invariata: e fu pertanto la crescita vertiginosa dei tassi di interesse, non più calmierati dal fiat moneydel Tesoro, a far esplodere il debito pubblico.
Certo, si sarebbe potuto evitare il crescente indebitamento se, in risposta alla perdita del potere governativo di fissare i tassi di interesse sul debito (potere che venne consegnato ai mercati finanziari), i Governi si fossero attenuti a una più severa politica di bilancio. Ma bisogna riconoscere che ormai “i buoi erano usciti dalla stalla” e che la condotta virtuosa di questo o quel Governo non avrebbe certo mutato il dato sotto il profilo strutturale.
Non è certo facile formulare un giudizio storico-politico sulla vicenda del “divorzio”: bisognerebbe chiedersi quale fosse il grado di consapevolezza delle conseguenze che ne potevano scaturire, quali furono le analisi economi-che prevalenti e le coalizioni di interessi che, larvatamente o dietro le quinte, spinsero affinché si aderisse alla pratica della Central Bank Independence. Occorrerebbe inoltre considerare i condizionamenti legati al contesto internazionale, che indubbiamente spingevano affinché in tutte le democrazie industriali avanzate si varassero misure di liberalizzazione ed espansione dei mercati finanziaria, e così via. Insomma, si tratta di ricostruire la genesi e le modalità di affermazione di quella complessa corrente di idee, pratiche, decisioni, interessi, etc., che prende il nome di «neoliberalismo» e che scandì, a livello mondiale, gli eventi politici ed economici più significativi a partire dalla fine degli anni ’70 sino ai giorni nostri.
Sta di fatto che con l’avvento dell’Eurozona l’indipendenza del centralbanking diventa assoluta e la politica monetaria diventa premi-nente e dominante rispetto alla politica fiscale, che senza il supporto di un’offerta monetaria adeguata, diretta a mantenere ragionevolmente bassi gli interessi sul debito pubblico, non può più essere liberamente ed efficacemente espansiva.
L’UME non è un’area valutaria ottimale
Ma se le politiche keynesiane non si possono più fare liberamente a li-vello nazionale, neanche sono possibili a livello sovranazionale, visto che un bilancio europeo dell’1% rispetto al PIL non può operare come strumento di stabilizzazione macroeconomica e in funzione anticiclica. L’assenza di un bi-lancio europeo di dimensioni adeguate dimostra che l’UME non è quella che si dice un’«area valutaria ottimale» e spiega perché sono necessarie le regole che pongono vincoli stringenti ai bilanci nazionali.
Vale a dire, nell’Eurozona il pareggio di bilancio e l’austerità fiscale non sono scelte politiche contingenti e facilmente rinunciabili, basta che lo si voglia: sono invece una necessità sistemica, un elemento basilare nella costruzione dell’unione monetaria.La ragione è proprio l’assenza di un bilancio federale europeo di dimensioni adeguate, cioè di dimensioni che consentirebbero di fronteggiare efficacemente eventuali shock asimmetrici che colpissero solo taluni paesi dell’unione monetaria.
Supponiamo, infatti, che più paesi aventi la medesima moneta condividano un bilancio comune, di dimensioni ragguardevoli: qualora uno di questi paesi fosse colpito da crisi economica, con un sensibile calo della produzione, dell’occupazione e delle entrate fiscali, gli stabilizzatori automatici del bilancio vi farebbero confluire risorse sotto forma di sussidi di disoccupazione, di cassa integrazione e di vari altri ausili. E tutte queste provvidenze sarebberofinanziate prevalentemente con le entrate fiscali dei paesi che hanno un ciclo economico positivo. In questo modo gli Stati membri che si trovano in una fase espansiva sosterrebbero quelli in fase di contrazione: automaticamente fluirebbero risorse dalle nazioni in surplus a quelle in affanno, mitigando le conseguenze sociali negative di fasi recessive che dovessero colpire solo alcuni paesi dell’unione valutaria.
Se però, come succede nell’Eurozona,manca un vero bilancio centralizzato a livello sovranazionale, l’urto di uno shock asimmetrico dovrà essere assorbito dalla finanza pubblica nazionale e quindi si ripercuoterà sugli stabilizzatori automatici di bilancio che operano a livello statale. Ma la crescitadella spesa sociale (e quindi del deficit e dell’indebitamento in una moneta che lo Stato non controlla) può creare problemi: in uno scenario siffatto gli Stati non possono avere piena libertà di manovra delle leve della politica fiscale; ed è invece necessario limitare fortemente il ricorso al deficit spending quale stimolo alla domanda interna aggregata. Le regole sul pareggio di bilancio sono dunque la cintura che tiene assieme diverse politiche fiscali nazionali.
Il nuovo art. 81 della Costituzione e la metodologia europea di calcolo del “prodotto potenziale”
E veniamo all’art. 81 della Costituzione, che a partire dalla modifica costituzionale del 2012 prevede la regola del pareggio o equilibrio di bilancio.
Va anzitutto precisato che la norma costituzionale contiene elementi di flessibilità, perché non prevede il pareggio nominale, cioè l’identità contabile fra entrate e spese effettive (“tanto incasso, tanto posso spendere”). È risaputo che il pareggio nominale è sicuramente pro-ciclico: se si riducono le entrate occorre ridurre le spese. E quindi, non può essere uno strumento per uscire dalle crisi recessive, ma anzi le inasprisce. La norma costituzionale è invece costruita sul pareggio “strutturale”: cioè non richiede l’identità tra entrate e spese effettive, ma fra spese effettive ed entrate potenziali, cioè quelle che lo Stato incasserebbe se il sistema economico operasse a pieno regime. Per avere perciò la misura della correzione strutturale si deve calcolare la differenza tra prodotto effettivo e prodotto potenziale, il c.d. output gap.E qui sta il nodo problematico.
Difatti, la metodologia di calcolo dell’output gap adottata a li-vello europeo difficilmente potrebbe consentire effetti anti-ciclici,poiché offre un margine di correzione strutturale del saldo di bilancio assai risicato. Il pro-blema, in particolare, è il modello di stima del PIL potenziale concordato a livello UE. Quanto più ampio è lo scostamento tra prodotto effettivo e potenziale tanto più profondo è l’effetto del ciclo e, quindi, tanto più elevata dovrà essere la correzione strutturale del saldo. Date queste premesse, se il PIL potenziale è sottostimato, la correzione strutturale del saldo non potrà in alcun modo sortire un effetto anti-ciclico, ma opererà sempre in modo pro-ciclico.
Peraltro, a differenza del prodotto effettivo, che è una grandezza misurabile oggettivamente, il prodotto potenziale è una stima incerta, anche perché si basa su una metodologia scientificamente controversa. Bisognerà anzitutto stabilire quali siano i fattori produttivi disponibili: in particolare, nel caso del fattore “lavoro” la metodologia seguita in ambito europeo si basa sul c.d. «tasso naturale di disoccupazione», il quale indica una soglia oltre la quale s’ipotizza che non possa crescere il livello di occupazione (e, quindi, il livello di utilizzo del lavoro come fattore produttivo). Quanto piùè elevato il tasso di disoccupazione naturale (detto anche “strutturale” o di “equilibrio”) tanto meno sarà elevato il prodotto potenziale e, quindi, la correzione strutturale del saldo di bilancio.
Ma come si calcola precisamente il tasso naturale di disoccupazione? Si guarda la serie statistica, con gli effetti di isteresi che ne conseguono. Se ogni anno il prodotto potenziale stimato si riduce rispetto all’anno precedente, il tasso di disoccupazione naturale aumenta. Questo significa che il margine di correzione strutturale sarà sempre più risicato e l’arma del pareggio strutturale sempre più spuntata.In altre parole, se l’occupazione effettiva crolla per effetto della crisi, aumentano le stime della disoccupazione strutturale, che a loro volta riducono la stima del prodotto potenziale, dell’output gap e, infine, del margine di correzione strutturale del saldo di bilancio, col risultato che il deficit spending consentito sarà ben al di sotto di ciò che sarebbe necessario al fine di contrastare la fase avversa del ciclo.
Conclusioni
L’Eurozona non è l’Unione europea, non si può prendere la par-te per il tutto. E i demeriti dell’una non possono e non devono cancellare i meriti dell’altra. Invece nel dibattito pubblico le due cose vengono identificate Indubbiamente c’è qualcosa che non va nel fatto che un grande progetto politico di integrazione costituzionale tra Paesi diversi sia simboleggiato da una moneta.
Un detto popolare dice che “non si deve buttare il bambino insieme all’acqua sporca”: vale a dire, occorre criticare e correggere quello che non va, senza però rimuovere sconsideratamente quello che invece va bene. Tutto ve-ro. Sennonché neppure possiamo tenere per un tempo indefinito questo bam-bino, l’UE, immerso nell’acqua sporca dell’Eurozona, che ormai è tossica e lo sta ammazzando. Se non interviene quanto prima una riforma dell’unione mo-netaria il progetto europeo rischia di collassare definitivamente.
Sassari, 12 ottobre 2018